Uffici giudiziari e magistratura palermitani a lutto per la morte dell’ex cancelliere dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo, Vincenzo Mineo, 69 anni, stroncato stamane da un malore improvviso.
Mineo è stato il primo ad avere le chiavi dell’aula bunker dell’Ucciardone dove si celebrò il maxiprocesso alla mafia: era la memoria storica di quell’evento giudiziario. Mineo è stato dirigente della cancelleria della corte d’assise di Palermo. Era in pensione dal luglio 2018.
Per anni è stato un punto di riferimento per i cronisti giudiziari che seguivano l’attività dell’ufficio istruzione dove lavoravano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e della corte che celebrava il maxiprocesso. Sono numerosi i messaggi di cordoglio per l’improvvisa scomparsa del funzionario.
E’ stato lui il custode del luogo che è stato per quasi due anni il simbolo della lotta alla mafia e lo è rimasto nel tempo.
Il ricordo dei colleghi e amici
“Poche persone sapevano comunicarti qualcosa come Vincenzo Mineo – scrive il giudice Mario Conte -La sua aria serena ma consapevole era per noi un rifugio sicuro per ogni problema.
Perché lui sapeva sempre come risolvere le questioni più intricate, memore di un’esperienza meravigliosa e formativa come quella a fianco di Giovanni Falcone nel maxi processo.
Ed è proprio questo che, nello strazio di una notizia che non avrei mai voluto sapere, mi conforta.
Sapere che quest’anno il 23 maggio lo trascorrerà con una persona di cui era veramente amico, nonché collaboratore fidato.
Grazie Enzo, per la tua amicizia ed i tuoi insegnamenti, e salutaci Giovanni Falcone ❤️”.
Giovanni Paparcuri, scampato alla strage in cui perse la vita il giudice Rocco Chinnici ha scritto: “Vincenzo Mineo, adesso mi proteggerai anche tu da lassù. Ciao”.
Una delle ultime interviste
Riportiamo una delle ultime interviste rilasciate da Vincenzo Mineo al Giornale di Sicilia.
«Per arrivare a quel 10 febbraio del 1986, giorno in cui si apri il maxiprocesso, c’è stato un grande lavoro preparatorio – ricorda-. A partire da quello condotto dall’ufficio istruzione del tribunale, quindi dal pool antimafia e in precedenza da Rocco Chinnici, fino ad arrivare all’8 novembre 1985, in cui venne depositata la famosa ordinanza di rinvio a giudizio».
In cosa è consistita la fase preparatoria?
«Noi, come gruppo che si occupò del dibattimento in assise, entrammo in gioco ai primi di novembre dell’85. In quell’estate, funestata dagli omicidi di Beppe Montana e Ninni Cassare, si stava costruendo l’aula bunker. In autunno, l’allora presidente del tribunale Franco Romano mi chiese di occuparmi del maxiprocesso e dell’organizzazione dell’aula bunker. Fui tra i primi a vederla, assieme al Pietro Grasso, che era stato destinato a fare il giudice a latere. C’erano misure di sicurezza mai viste prima con gli autoblindo della polizia tutto intorno Era una Palermo che osservava ciò che accadeva con curiosità ma anche con un certo fastidio.
Perché venne realizzata ?
Fu costruita per evitare infinite traduzioni dal carcere Ucciardone al palazzo di Giustizia dove peraltro non c’era un luogo adatto per ospitare un processo con 475 imputati per 480 circa capi d’imputazione, tra cui 90 omicidi. II processo era enorme, credo ci fossero all’incirca 300 avvocati. Qualcuno propose di spostare la sede a Roma, nell’aula del Foro Italico utilizzata peri processi al terrorismo. Ma fu il giudice Falcone ad opporsi: i morti sono stati a Palermo, i reati sono stati commessi qua e quindi il processo si deve svolgere qua. Il ministero della Giustizia fu veramente efficiente, ci fu uno sforzo da parte di tutto il governo e in 9 mesi si costruì quest’aula. Ricordo che me la consegnarono, in quanto delegato dal ministero, alcuni giorni dopo il capodanno del 1986. L’aula aveva centinaia di porte e di chiavi, era dotata di sistemi d’allarme ai quali all’epoca non eravamo abituati, e con una tecnologia che per gli uffici giudiziari era assolutamente nuova. Ci venne consegnata chiavi in mano, tutto era al suo posto: dagli arredi, agli impianti di registrazione, ai computer. Ricordo che il Washington Post scrisse che funzionava tutto così bene che non sembrava di essere in Italia».
Quali problemi avete affrontato?
«Il 9 febbraio dell’86, il giorno prima dell’inizio del processo, siamo stati fino alle due di notte a controllare che tutto fosse in ordine. Ci arrivarono più di 600 mila pagine di atti che occuparono un intero archivio. Erano tante le situazioni da gestire: dalla sicurezza, ai rapporti con le forze dell’ordine e con la stampa. Avevamo circa 500 accrediti di giornalisti, tra quotidiani, tv e radio. Provenivano da tutto il mondo. Gli americani lo seguivano con grande attenzione perché le indagini riguardavano la parte che fu stralciata della cosiddetta Pizza Connection. Indagini che Falcone fece in America appoggiandosi sull’Fbi».
Che ricordi ha del giudice Falcone?
«Ci siamo conosciuti durante i lavori di costruzione dell’aula bunker. Dopo nemmeno un mese dall’inizio del
processo venne arrestato Michele Greco, il capo riconosciuto di Cosa nostra. Fu portato all’Ucciardone. Ol-
tre ad essere imputato al maxiprocesso, già in dibattimento, aveva altre indagini che pendevano su di lui, Falco ne lo interrogò in aula bunker. Non andava al carcere da alcuni anni perché durante un interrogatorio aveva subito un tentativo di aggressione. Alla fine dell’interrogatorio, mi “Ce la possiamo fare”. Ci davamo del lei, ma c’era un rapporto davvero bello”.
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