Chiunque pensasse di combattere la Mafia nel “pascolo” palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo”.

E’ una delle riflessioni più note e importanti del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso in un agguato mafioso assieme alla moglie e a un agente di scorta il 3 settembre 1982.

A Palermo, dove arrivò ufficialmente nel maggio dello stesso anno, lamentò più volte il mancato rispetto degli impegni assunti dal governo e la carenza di sostegno da parte dello Stato nella lotta alla mafia.

Da Palermo a Milano, a 36 anni di distanza dall’omicidio, molte le iniziative per ricordare la sua figura. A Roma ci saranno il capitano Ultimo, e con lui anche la figlia del generale, Rita Dalla Chiesa.

Oggi alle 8:30 verrà deposta una corona di fiori davanti al busto dedicato a Dalla Chiesa che si trova presso il Comando Legione Sicilia.

Alle 9,30 invece la cerimonia sul luogo dell’eccidio, in via Isidoro Carini.

Alle 10 segue la celebrazione eucaristica presso la Chiesa di San Giacomo dei Militari, all’interno del Comando Legione Carabinieri Sicilia, officiata dall’Arcivescovo Corrado Lorefice.

Era stato lo stesso Riina a ricostruire l’omicidio intercettato il 4 settembre del 2013. Le intercettazioni sono state depositate dall’accusa al processo per la trattativa.

“Perciò appena è uscito lui con sua moglie … lo abbiamo seguito a distanza … tun … tun … (si porta la mano sinistra davanti la bocca come per indicare “lo abbiamo ucciso”). Potevo farlo là, per essere più spettacolare nell’albergo, però queste cose a me mi danno fastidio”.

Il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa operò per appena 100 giorni a Palermo, prima di essere barbaramente trucidato a colpi di kalashnikov da un commando mafioso, la sera del 3 settembre 1982, assieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente Domenico Russo.

E’ Riina che parla nel carcere di Opera, dove è detenuto al regime col regime del 41 bis, con il suo compagno di passeggio, Alberto Lorusso.

Riina appare sprezzante, irriverente, parla del prefetto Dalla Chiesa senza alcun rispetto: “questo era ubriaco o era un folle. Riina prosegue: “Minchia, allora … deve venire… va bene. L’indomani gli ho detto: Pino, Pino (..ruota l’indice ed il medio della mano sinistra – annotano gli investigatori della Dia nella trascrizione – alludendo verosimilmente ad un suo ordine di attivarsi per un omicidio) prepariamo armi, prepariamo tutte cose”.

E poi ecco i dettagli, crudi sull’omicidio: “A primo colpo, a primo colpo abbiamo fatto… eravamo qualche sette, otto… di quelli terribili… eravamo terribili… L’A112 … 0 uno, due tre erano appresso… eh… l’abbiamo ammazzato; Nel frattempo… altri due o tre … … lui era morto ma pure che era morto gli abbiamo sparato… là dove stava, appena è uscito fa … ta … ta .. , ta … ed è morto”.

Il boss afferma che lui conosceva il generale, in servizio a Corleone quando era ancora un giovane tenente dell’Arma. E proprio in virtù di ciò, nella logica di Riina, il generale-prefetto avrebbe dovuto rifiutarsi di tornare in Sicilia con pieni poteri: “Questo qua cominciò da Corleone. L’hanno fatto tenente a Corleone, nella caserma di Corleone… E Corleone lo sdisossò”. Infine il capomafia accenna a Rita Dalla Chiesa: “Certe volte rido con la figlia, la figlia … questa ha pure … Canale 5, questa è appassionata con suo padre. Mischina ha fatto sempre bile con questo suo padre, minchia”.

Riina aveva parlato del mistero della cassaforte di Villa Pajno trovata vuota. “Questo Dalla Chiesa ci sono andati a trovarlo e gli hanno aperto la cassaforte e gli hanno tolto la chiave. I documenti dalla cassaforte e glieli hanno fottuti”. “Minchia il figlio faceva … il folle. Perchè dice c’erano cose scritte”, continua Riina nella conversazione intercettata a Opera il 29 agosto del 2013 e finita agli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia. “Ma pure a Dalla Chiesa gli hanno portato i documenti dalla cassaforte?”, chiede Lorusso.”Sì, sì – risponde il boss che poi accenna alla cassaforte del suo ultimo covo, sostenendo che fosse priva di documenti – Li tenevo in testa”. “Loro – continua, tornando a Dalla Chiesa – quando fu di questo … di Dalla Chiesa … gliel ‘hanno fatta, minchia, gliel’hanno aperta, gliel’hanno aperta la cassaforte … tutte cose gli hanno preso”.

Sul mistero della cassaforte erano intervenuti anche i figli del generale che raccontarono di quanto successe al processo. “La mattina dopo l’omicidio andammo a casa di mio padre e la cassaforte era chiusa. Chiedemmo ai collaboratori domestici e poi guardammo nel mobiletto. Ma c’erano solo cassetti vuoti….”. “La settimana dopo tornammo e nel cassetto spuntò una chiave su cui c’era scritto ‘cassaforte’. L’abbiamo aperta ma c’era solo una scatola vuota”.