Ottantasette anni e sentirli appena. Gesuita, teologo, esponente della dottrina sociale della Chiesa e ispiratore della Primavera Palermitana, Padre Bartolomeo Sorge, nei giorni scorsi, è tornato per qualche ora a Palermo. Già direttore del Centro Arrupe, negli anni ’80 e ’90 fu teorizzatore e ispiratore del ‘laboratorio politico Palermo’, oggi, lontano da quel Leoluca Orlando, sindaco allora e sindaco oggi, è stato invitato a tenere una conferenza nella Parrocchia di Sant’Ernesto su tema: “Papa Francesco: misericordia, giustizia e missione dei laici”. Una occasione ghiotta per BlogSicilia per raggiungerlo e parlare della politica di ieri in tempi di politica decadente ricordando, nel bene e nel male, la sua esperienza palermitana di tanti anni fa.

Lei è stato a Palermo per circa 11 anni e ne è lontano da quasi venti. Come vede adesso la città? I grandi problemi che lei trovò, e che ha contribuito a risolvere con la sua azione formativa, sono in parte risolti?

“La cosa che più mi impressionò quando arrivai a Palermo fu la rassegnazione della gente. Ricordo che mi portarono sul luogo dell’eccidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa dove c’era un cartello, poi divenuto famoso, che diceva: “Oggi è morta qui la speranza degli onesti”. Io mi chiesi: “Ma come è possibile? Se non c’è una indignazione, una reazione, si rimane schiavi”.

E come reagì?

“Pensai con i miei confratelli che l’unica cosa da fare fosse la formazione: ridare fiducia alla gente, muoversi, rivolgersi ai giovani dando la speranza di una Palermo legale. E di fatti fu la carta vincente, perché poi tra conferenze e incontri il Centro “Arrupe” divenne per così dire un centro simbolico di resistenza alla mafia. Per cui quando poi ho vissuto la c. d. Primavera di Palermo non mi sembrò vero che ciò potesse accadere. A tal proposito ricordo sempre un fatto significativo”.

Quale?

“Ricordo che la prima volta che la notizia della nuova iniziativa fu data dai giornali mi fermò una signora che mi chiese: “Lei è Padre Sorge”. “Si, risposi, perché?” “Desidero ringraziarla per quello che fa”. Io precisai che non stavo facendo nulla essendo appena arrivato in città. E ricordo che lei disse: “Per noi che da Palermo vogliamo andare via, vedere che uno viene a stare qui, è motivo di speranza”. E poi aggiunse sotto voce: “Perché c’è la mafia.” Mi ricordai di quella signora che aveva paura di dire ad alta voce la parola “mafia” quando tempo dopo si diede luogo ad una imponente manifestazione contro la mafia che attraversò il centro di Palermo; mi convinsi definitivamente che occorreva dare fiducia alla gente. Doveva essere quello l’elemento fondante della nostra azione”.

Oggi alla guida della città ci sono alcuni esponenti della politica che lei aiutò a formare e sostenne nella esperienza della primavera palermitana. Quella primavera dopo vent’anni a cosa ha dato luogo? Ad una afosa estate, ad un triste autunno o a un rigido inverno, magari in attesa di una nuova primavera?

“Forse a nulla di tutto questo. Io vengo ogni tanto a Palermo e quindi non sono in grado di giudicare. Però non vedo quell’entusiasmo che c’era a quel tempo, da cui era nato un movimento di fiducia che ha prodotto i suoi effetti ma che non è durato; non a caso si è parlato di una primavera breve. Però io sono sicuro che quello che si è seminato di buono non va mai perso. Quindi forse siamo di fronte ad una stagione un po’ in ritardo, ma i frutti della primavera prima o poi sbocceranno”.

Dei problemi di allora il più grave era e rimane la mafia. Vent’anni sono forse sufficienti per trarre una valutazione. Quali punti fermi sono stati raggiunti e quali ancora bisogna conquistare?

“La lotta alla mafia è una battaglia culturale. La prevenzione è importante; lo Stato ha la Magistratura e l’esercito. Ma mi fece impressione quanto mi disse una volta il cardinale Salvatore Pappalardo: “Vede Padre, noi non abbiamo il fucile come le Forze dell’ordine, non possiamo sostituirci ai magistrati, però abbiamo il Vangelo e con il Vangelo possiamo sradicare la malapianta della mafia”. Perché quello che avveniva, fin dai tempi di Mussolini era che arrivava l’esercito, tagliava l’erba ma rimaneva la radice. E quindi l’erba rispuntava. La Chiesa era quella che poteva togliere la radice e questo la mafia l’ha capito. Ho visto con i miei occhi che la mafia non si può vincere con le armi. La prevenzione è importante, ma per vincerla bisogna cambiare la mentalità”.

Al problema mafia si è però aggiunto anche quello dell’antimafia, già individuato allora ma che ora ha assunto caratterizzazioni più concrete e forse più gravi. Cos’è più difficile estirpare l’una o l’altra?

“Bisogna sapere quali sono i valori che si dà questa antimafia. Perché, come aveva preconizzato Leonardo Sciascia, l’antimafia è diventata per molti quasi un fiore all’occhiello. Facevano carriera presentandosi come campioni dell’antimafia e poi, come abbiamo visto anche di recente, sono dei collusi. Quindi bisogna stare attenti alle etichette, perché … provo a dirlo in altri termini: l’umiltà che è una grande virtù, consente anche ai superbi di apparire miti. Siccome l’antimafia è diventata una questione moralmente interessante ecco che può diventare uno strumento per fare carriera. Però devo dire che i casi sono limitati. Se l’iniziativa in sé è buona, questi casi sporadici non possono distruggerla”.

La novità più rilevate degli ultimi anni è stato il tentativo del Governo regionale di fare della lotta alla mafia un metodo per la gestione della cosa pubblica, volta a cercare e colpire rei, piuttosto che a impedire reati. Pensa sia una strategia politica, che possa dare risultati?

“Penso proprio di no. La politica è un’altra cosa, è la ricerca del bene comune valorizzando le capacità dei singoli e l’esperienza dei corpi intermedi che esistono, andando anche al di là delle clientele, delle ideologie; la politica è un’arte e invece come viene vissuta rischia di cadere ancora nei vecchi schemi che sono finiti con la morte delle ideologie. Quando le grande ideologie di massa sono fallite una dopo l’altra, la politica è rimasta senza ideali e senza una forza etica, che è l’anima della politica. La politica –  come ogni essere vivente – se perde l’anima si corrompe. Quindi la corruzione che vediamo quotidianamente è inevitabile, per cui se non ritorna l’anima ideale…. Difatti se pensiamo alle grandi ideologie, come il comunismo ad esempio, mantenevano una forza per cui era facile trovare al loro interno delle persone “rette”, cioè oneste, anche se le ideologie erano sbagliate”.

E oggi?

“Oggi, invece, si fa politica come si fa una professione, cioè “se faccio il politico invece che l’architetto o il notaio, è la stessa cosa”. Quindi, se la politica perde la vocazione o la missione, fallisce. Ci sono lavori che si possono fare solo se uno ha la vocazione per farli: un medico che non ha una vocazione è un disastro, ma lo stesso vale per un sacerdote o un politico”.

L’esperienza di quegli anni si caratterizzò per la forma che presero le Scuole di formazione politica. Possiamo provare a definirle oggi dopo vent’anni? Cosa volevano essere, quali risultati conseguirono?

“Quando le abbiamo pensate il nostro obiettivo era chiaro: formare i giovani alla politica. Partivamo dalla considerazione che la classe dirigente di allora aveva perso l’ideale, (tra l’altro era stata decapitata da tangentopoli). E aggiungevamo che c’era la necessità di una classe dirigente nuova e dei giovani che avessero una vocazione”.

E più in dettaglio come funzionavano?

“Dopo la presentazione della domanda noi facevamo un colloquio per verificare se c’erano la vocazione e le qualità per fare il politico. Non chiedevamo appartenenze: a desta o a sinistra; credente o non credente. Offrivamo poi una formazione non teorica, ma rivolta a come fare politica. Faccio un esempio: si studiava statistica, non certo come si faceva all’università (anche perché erano già tutti laureati), ma per così dire applicata alla realtà in cui si viveva. Così insegnavamo a capire come si stabiliscono chi sono e quanti sono i disoccupati o i senza casa e a mettere in rapporto questi numeri con la realtà che conoscevamo direttamente. Insegnavamo una pratica del fare politica dando un’anima ideale. Quel metodo andava bene in quel momento ed ha certamente contribuito alla rinascita comune di quegli anni, insieme a tanti altri elementi. Oggi è cambiata la situazione. Queste scuole hanno avuto un esito un po’ infelice anche perché i giovani che concludevano il biennio non venivano cercati dai partiti. I partiti preferivano fare affidamento alle loro scuole, dove si insegnava innanzitutto “a portare la borsa” al politico di turno, piuttosto che prendere dei giovani molto preparati che uscivano dalle nostre scuole. Anche per i giovani è stata quindi una delusione perché, dopo che si impegnavano non trovavano uno sbocco. Qualcuno è riuscito, ma solo in pochi”.

E oggi?

“Oggi hanno valore formativo. C’è stato il crollo della politica e non essendoci più le ideologie bisogna imparare a costruire la casa comune. Non si tratta di imporre un modello all’altro, ma di formare i giovani ad una nuova sensibilità. Noi intendevamo formare esplicitamente una nuova classe dirigente; oggi quelle rimaste sono impegnate in una formazione più di fondo e di stampo più tradizionale, come ad esempio le Scuole diocesane di Dottrina sociale”.