Il Tribunale del riesame di Brescia ha disposto il dissequestro di 35 carabine Zastava M76, accogliendo integralmente il ricorso in appello presentato dall’avvocato Antonio Bana che, insieme a Fabio Antonio Siena del
suo studio, da anni si occupa del caso sorto intorno a quest’arma.

Si tratta di un’iniziativa partita da un ristretto gruppo di appassionati, guidati dal dottor Maurizio Di Piazza di Palermo, che si erano visti sequestrare le armi nel lontano 2014.

La pronuncia è destinata, però, a provocare ripercussioni di ben più ampio raggio: sono infatti oltre 1200 le carabine di questo modello che potrebbero essere dissequestrate, in base agli stessi principi.

Per comprendere la vicenda occorre risalire nel tempo ad alcuni anni fa. Infatti, sin dal 2004 il Ministero dell’interno, aveva inserito l’arma nel Catalogo Nazionale delle Armi Comuni da Sparo (nn. 14655 e 15198), con il parere positivo della Commissione Consultiva Centrale per il Controllo delle Armi, composta dai maggiori esperti italiani.

Anche in seguito all’eliminazione del Catalogo nel 2011, il Banco Nazionale di Prova di Gardone Val Trompia, subentrato al Ministero nel valutare la natura di ogni arma importata in Italia, aveva classificato, più volte, la Zastava M76 come arma comune (nn. 12_02089 e 13_01529d), dunque liberamente commercializzabile.

Nel corso di un successivo controllo, però, l’allora Direttore del Banco Nazionale di Prova, l’ingegnere Antonio Girlando, scoprì che, per un difetto di progettazione, l’arma poteva in alcuni casi, sostenere il ciclo automatico (cosiddetto a raffica), ponendo il selettore di tiro in una posizione intermedia tra quella di sicura e colpo singolo, posizione non prevista dal costruttore e non segnalata sui comandi dell’arma.

Lo Zastava M76 è un fucile da sniper (da precisione, ndr), famoso per il suo utilizzo dai cecchini serbi nella guerra in Kosovo, prodotto sino al 1999 ed oggi, molto ricercato da collezionisti e appassionati.

Non si tratta quindi di un fucile d’assalto ma di un’arma di precisione, e il ciclo automatico, quando si verifica, è essenzialmente un’anomalia di funzionamento e non una caratteristica strutturale dell’arma prevista nella sua progettazione e produzione.

Tale difetto, però, ha giustificato nel 2014 il sequestro di migliaia di esemplari, su iniziativa della Procura di Brescia, poi convertito in sequestro preventivo finalizzato alla confisca.

Da allora nessuna delle decine di istanze e ricorsi di restituzione, da chiunque proposte, è stata accolta, sino allo scorso anno, quando, sempre su iniziativa dell’avvocato Bana, la Cassazione ha ordinato il dissequestro di 10 esemplari che non erano in grado di sparare a raffica e che, la Cassazione stessa in una precedente pronuncia aveva ritenuto comunque “da guerra”, in forza del solo divieto di caricatori di oltre 5 colpi nelle armi lunghe sopravvenuto nel 2015 (cioè dopo il sequestro).

In seguito a questa pronuncia fu quindi sconfessata la tesi per cui le armi dovessero comunque considerarsi da guerra, non più demilitarizzabili ed inevitabilmente destinate al sequestro, indipendentemente dagli esiti del processo nei confronti di alcuni importatori e dalla buona fede dei singoli acquirenti.

La pronuncia del Tribunale del Riesame aggiunge un ulteriore tassello in questo complesso quadro.

Secondo la difesa dei proprietari, infatti, seguita in toto dal collegio, è possibile concedere il dissequestro previa effettuazione delle modifiche tecniche necessarie ad inibire ogni possibilità di uso dell’arma in ciclo automatico (come avviene normalmente nel settore della tutela della proprietà intellettuale e in ossequio al principio di proporzionalità, che la Cassazione e la CEDU ritengono applicabile anche alle misure cautelari reali).

Trattasi a questo punto di un principio che, con le stesse modalità, potrà trovare applicazione anche a tutte le altre armi di proprietà di altri destinatari del sequestro.

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