“Dove eravamo rimasti…”
Sembra di risentire le parole di Enzo Tortora quando riprese il timone – per poco – del suo Portobello di ritorno dai processi ma soprattutto dalle assoluzioni nel caso che l’aveva visto suo malgrado protagonista di accuse infamanti come quella di essere fiancheggiatore della camorra. Dove eravamo rimasti a riprendere il filo interrotto del dialogo con il suo pubblico.

Chissà se lo ha pensato anche Matteo Renzi ieri intervenendo al Senato sulle dichiarazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte ad illustrare i provvedimenti del governo sullo scostamento di bilancio e sul Def, il documento di economia e finanza.

Ecco, a parte gli oltre cinquanta giorni di lockdown, siamo rimasti lì, fermi, imbrigliati, incatenati alle minacce di Matteo Renzi rivolte all’esecutivo guidato da Conte e sostenuto dal Pd di Nicola Zingaretti. Anche da Italia Viva, per la verità, ma sempre nel ruolo di grillo parlante. Cinquanta e passa giorni fa ci eravamo lasciati con l’annuncio da parte di Conte di un faccia a faccia con Renzi che avrebbe dovuto dipanare i motivi del dissenso sulle azioni di un governo che Matteo da Rignano metteva pesantemente in dubbio.
Cinquanta e passa giorni fa.
E che oggi, anzi ieri, ha di nuovo violentemente avvertito.

Un avvertimento sia chiaro perché Matteo di far cadere il governo in questo momento non può certo permettersi. Ma quando l’onda d’urto dell’urgenza sarà finita, piazzerà la sua mossa. E’ nelle cose, e in fondo non è colpa di nessuno. Nemmeno dell’avvocato del popolo. Giuseppe Conte in queste settimane di crisi come mai è capitato nella storia repubblicana dell’Italia, ha fatto tutto quello che poteva/sapeva fare. Ha cercato di rassicurare gli italiani e in fondo c’è riuscito persino in presenza degli scivoloni iniziali quando in una domenica di fuoco si è presentato a tutte le ore, in tutti i minuti di palinsesto televisivo disponibile nelle case degli italiani a raccontare di quanto fosse pericoloso il covid19. Generando, suo malgrado, l’effetto opposto: non sicurezza ma angoscia e terrore. Come quella sera – sembra un’era geologica fa – in cui ha annunciato la chiusura dei confini regionali. E tutti trolley in mano pronti a scappare dal Nord.

Eppure, guardandolo in faccia durante le sue dirette facebook, replicate istantaneamente in tv, Conte ha generato un sentimento di immedesimazione. Chi lo guardava pensava: “Poveraccio, che guaio. Oddio che casino sta affrontando”. Uno di noi. E’ questo il problema: uno di noi non può fare il presidente del Consiglio. Non è vero che uno vale uno. Propaganda populista che è arrivata al capolinea. Senza cattiveria. E senza per questo dar ragione all’opportunismo politico di Matteo Renzi, avvoltoio sul cadavere marcescente di un esecutivo che finita la fase dell’emergenza sanitaria dovrà affrontare quella gravissimissima dell’economia in pezzi.

Distrutta, cannibalizzata da un virus che ha già ucciso il futuro di milioni di persone. Quelle che – in nero – non hanno più il lavoretto precario che gli consentiva di mettere insieme il pranzo con la cena. Quella dei commercianti che quando riapriranno sanno già che guadagneranno – se va bene – il 20% di quanto portassero a casa A.C. (avanti Covid) quando i costi fissi sono rimasti al 100% anche nel periodo di fermo. Udite udite il futuro pure dei dipendenti a tempo indeterminato nel pubblico come nel privato (almeno le aziende più strutturate) che già combattono con l’annuncio del blocco degli straordinari. E le bollette continuano ad arrivare, gli affitti reclamano di essere saldati, le rateizzazioni con Equitalia sì sono sospese, ma a giugno si riprende e nessuno è in grado con assoluta certezza di stabilire se l’Agenzia delle Entrate vorrà tutto l’arretrato.

Di fronte a questo il “Cura Italia” e poi il decreto liquidità in attesa del decreto Aprile che bisognerà ribattezzare Decreto Maggio non ha fornito certezze. Anzi il contrario. E non lo dice Renzi. Chisseneimporta. Lo dice il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella nel suo messaggio per la festa del lavoro (che a pensarci in Italia è sempre stata una beffa) quando nel passaggio finale del suo discorso dice: “ Sono necessarie indicazioni – ragionevoli e chiare – da parte delle istituzioni di governo ma, oltre al loro rispetto, è soprattutto decisiva la spontanea capacità di adottare comportamenti coerenti nella comune responsabilità di sicurezza per la salute”. Già perché l’intervento di domenica scorsa del presidente del Consiglio è stato confuso e incerto. Nessuna cattiveria, come sopra. Ma un dato di fatto. E a dimostrazione che l’avviso di sfratto a Conte non venga dato da Renzi che cinicamente approfitta del momento per dire ciò che altri non hanno espresso con altrettanta chiarezza, ci sono anche le parole della presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, appena uscita lei stessa dalla sua personale lotta al coronavirus. Intervistata su Repubblica qualche giorno fa ha spiegato che “non esiste un diritto speciale per tempi eccezionali”. E se le deroghe alle procedure di rappresentanza parlamentare sono consentite de facto “seguendo principi di trasperanza, proporzionalità e temporaneità” ecco quel tempo è finito. Si riapre il 4 maggio? Si riparta anche accantonando lo strumento dei Dpcm.

Perché l’emergenza quando diventa strutturale e due mesi ormai la possono definire tale, necessita di un piano chiaro. Ora più che mai chiaro economicamente. E allora: “Whathever it takes”. Si faccia quello che va fatto. Chi lo farà? Molto probabilmente chi questa frase storica l’ha pronunciata. Era il 26 luglio 2012 e Mario Draghi, capo della Banca centrale europea partecipava a Londra al Global Investment Conference. E difendeva l’euro. Oggi c’è da difendere l’Italia e gli italiani.