- Al processo per il triplice omicidio a Lentini hanno parlato due pentiti
- Hanno detto di aver agito per togliere di mezzo un rivale del boss di Lentini
- Coinvolti nel delitto due persone che non c’entravano nulla con il regolamenti di conti
La strage al bar Golden di Lentini, culminata 30anni fa con l’omicidio di un esponente mafioso, Salvatore Sambasile, e di 2 clienti del locale, Cirino Catalano e Salvatore Motta, trovatisi per caso in quel regolamento di conti tra clan, fu eseguita “per fare un favore al boss Nello Nardo di Lentini”.
Le rivelazione dei pentiti
Lo hanno detto due dei quattro esecutori del delitto, Ferdinando Maccarrone e Natale Di Raimondo, catanesi, collaboratori di giustizia, nel corso del processo in Corte di Assise a Siracusa che vede alla sbarra proprio Nello Nardo, il capo della cosca egemone di Lentini, affiliata ai Santapaola di Catania. I due killer agirono insieme a Francesco Maccarrone, fratello di Ferdinando, e Nunzio Cocuzza, pure loro pentiti, e dalle loro testimonianze è emerso che a dargli l’ordine di organizzare l’omicidio fu Giuseppe Squillaci, a capo di un gruppo, anch’esso vicino alla famiglia Santapaola.
La strage
L’obiettivo era Salvatore Sambasile, leader di una banda criminale a Lentini rivale della cosca Nardo: il 10 aprile del 1991, Sambasile si era recato in quel bar per un caffè. Il commando, arrivato a bordo di una macchina, un’Alfa 33 risultata rubata ed armato di fucili, aprì il fuoco all’impazzata, uccidendo Sambasile e le altre due vittime, che non c’entravano nulla con il regolamento di conti.
Favori tra cosche
Secondo quanto riferito dai pentiti, c’era una sorta di accordo tra il clan di Lentini e quello catanese per risolvere dei problemi “interni”. Se serviva ammazzare dei rivali nella città etnea, la cosca del boss Nardo avrebbe messo a disposizione i propri sicari e viceversa, come è avvenuto, stando alla tesi della Procura distrettuale antimafia, nel caso della strage al bar Golden.
Il boss Nardo
Durante l’udienza, ha chiesto di parlare proprio l’imputato, Nello Nardo, il quale ha domandato ai pentiti se lo conoscessero. I collaboratori hanno negato di conoscerlo ma hanno confermato che avevano ricevuto precisi ordini da Giuseppe Squillaci.
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