L’accusa mossa dai magistrati della Procura di Trapani, nel 2007, è  di peculato. L’allora arcivescovo della Diocesi siciliana, Mons. Francesco Micciché, si sarebbe appropriato indebitamente di circa 540.000 euro, una somma assegnata alla curia arcivescovile di Trapani dalla CEI, proveniente dall’8 per mille.

Al Tribunale di Trapani, ieri, è stato chiesto il rinvio al giudizio del prelato. Il collegio difensivo è costituito dagli avvocati monrealesi Mario Caputo, Nicola Nocera e Francesco Troia.

“All’inizio dell’indagine – spiega l’avvocato Caputo – la Procura parlava di appropriazione indebita di circa 8 milioni di euro, un importo successivamente ridotto a circa 2 milioni. Con l’avviso di conclusione delle indagini l’appropriazione indebita contestata si era ulteriormente ridotta a circa 540.000  euro.  In seguito, abbiamo chiesto ed ottenuto l’interrogatorio di S. E. Mons Micciché davanti ai Pubblici Ministeri. Abbiamo depositato la documentazione contabile acquisita presso la Curia, abbiamo depositato la relazione del nostro consulente, il dottore Gianfranco Scimone, e siamo riusciti a dimostrare la provenienza e l’utilizzazione lecita di alcuni prelievi, per circa 140.000 euro. Tanto che la Procura, dall’avviso di conclusione delle indagini al successivo atto, la richiesta di rinvio a giudizio, ha depennato ed eliminato questi versamenti. L’ammontare della contestazione da 540.000 € si è adesso ridotta a circa 400.000 euro”.

L’avvocato Caputo mostra molta fiducia nel potere dimostrare come anche questa somma sia riconducibile ad operazioni fatte dal vescovo nell’interesse della Curia: “Ieri mattina, nel corso dell’udienza, ho depositato un’altra integrazione della relazione contabile del dottore Scimone, dove contestiamo che queste somme di denaro possano essere state utilizzate per fini diversi da quelli della Diocesi. E così come abbiamo dimostrato e fatto comprendere che per queste ingenti somme il modus operandi del vescovo fosse stato corretto, riteniamo di potere riuscire a dimostrare con questa integrazione come anche per le altre somme l’operato del nostro cliente sia stato impeccabile”.
Dalle carte dell’accusa emerge che il vescovo abbia fatto di persona i prelevamenti in banca. “Abbiamo invece dimostrato come il vescovo non si sia mai recato in banca personalmente, ma che vi andavano gli economi della Diocesi. Abbiamo inoltre chiesto al dottore Cavasino di nominare un perito contabile del giudice, affinché possa studiarsi la documentazione contabile e le fatture da noi prodotte, e potere confermare il ragionamento del nostro consulente, cioé dimostrare come tutte le somme siano state tutte utilizzate nell’interesse della diocesi”.

La Procura ha svolto una serie di accertamenti sui conti correnti del vescovo, del fratello e della sorella, “ma non sono emersi movimenti di denaro sospetti, attinenti alle somme contestate dalla Procura”.

Il 13 gennaio il giudice dovrebbe sciogliere la riserva e ammettere o respingere la richiesta di un perito terzo e parziale per la ricostruzione contabile.