Davide Romano
Davide Romano è attivo nel mondo del volontariato e appassionato di studi religiosi, lavora da molti anni nell’ambito della comunicazione politica, culturale, religiosa e sindacale.
«A Palermo la sporcizia regna sovrana.
Ma anche questa è pittoresca. Ogni cosa qui è bella, persino l’immondezza».
(Guy de Maupassant, “La Vie errante”, 1890)
Caro lettore,
permetti che cominci con una constatazione che avrebbe fatto sorridere Leo Longanesi, grande moralista disilluso del nostro Novecento: ogni volta che torno a Palermo, mi accoglie un paesaggio familiare, quello dei rifiuti. Non è solo degrado materiale, ma una metafora rovesciata della nostra identità collettiva. Le strade – specie quelle nobili e antiche – sono costellate da sacchetti squarciati, materassi abbandonati, detriti urbani che sfidano la bellezza come una bestemmia detta a mezza voce in una chiesa.
Eppure, prima di cedere al sarcasmo – sport nazionale – occorre tentare una riflessione più profonda. Perché Palermo, questa città che ha stregato viaggiatori come Goethe, Maupassant, Von Riedesel e Patrick Brydone, può incantare e ferire con la stessa intensità? Perché, accanto ai mosaici normanni e alle cupole arabo-bizantine, convivono cumuli di rifiuti che sembrano avere radici millenarie?
Le origini di un disastro (non così recente)
Non si tratta solo di un’emergenza contemporanea. La gestione dei rifiuti a Palermo – o la sua assenza – è una costante storica. Persino nel XVIII secolo, lo scozzese Patrick Brydone annotava con stupore, durante il suo Grand Tour del 1770, che «Palermo è una città incantevole, se non fosse per la sporcizia che la soffoca». Anche Johann Hermann von Riedesel, nel suo Viaggio in Sicilia, scriveva che “il lezzo delle strade penetra fino ai palazzi”, segnalando già allora una compresenza di splendore e abbandono.
L’Ottocento non fece eccezione. Guy de Maupassant, in visita nel 1885, coniugava ammirazione e disincanto: «Palermo è forse la città più bella del mondo. Ma il suo fascino è fatto anche di contraddizioni. La sua immondizia stessa possiede una sorta di grazia decadente». Un’osservazione amara, poetica, ma non indulgente.
Eppure, la storia più recente ha peggiorato il quadro. Dai primi decenni del secondo dopoguerra, passando per la cosiddetta “svolta autonomista”, fino ai giorni nostri, Palermo ha vissuto una parabola discendente nella gestione dell’ordinario. A nulla sono valsi i piani straordinari, le emergenze dichiarate, le gare d’appalto straordinarie: alla fine, la spazzatura resta lì. Cambiano i governi, gli assessori, i direttori, ma l’immondezzaia urbana è la vera regina della continuità.
Due città che non si parlano
L’impressione è quella di vivere in una Palermo sdoppiata: da un lato, la città delle cupole e dei mercati storici, degli oratori barocchi e dei teatri settecenteschi; dall’altro, la città sommersa, afasica, della plastica gettata nei tombini e degli angoli dimenticati. Due città che non si guardano, che coabitano come coinquilini ostili.
Leonardo Sciascia, osservatore implacabile, intuì questo dualismo nei suoi scritti su Palermo: «Qui la bellezza convive con la morte, la meraviglia con il degrado. E nessuno se ne stupisce più». È forse questa la vera tragedia: l’assuefazione.
Camilleri, in un’intervista, confessò che «i siciliani hanno un talento speciale per rovinare le cose belle che toccano». E guardando Palermo oggi, il sospetto diventa certezza. Non si tratta solo di incuria: c’è una sorta di estetica del disfacimento, un’oscura complicità con il proprio declino.
Il teatro dell’immondizia
Nel gesto con cui si getta un sacchetto dalla finestra, o si abbandona un frigorifero sul marciapiede, c’è qualcosa di teatralmente siciliano. Federico De Roberto, nel suo I Viceré, coglieva l’anima barocca della nostra quotidianità: «In Sicilia, tutto è rappresentazione». Anche il degrado sembra avere una sua coreografia, una ritualità che non scandalizza più nessuno.
La città marcia tra le sue rovine come un attore stanco che ha smesso di credere nel copione. Eppure, le voci dei visitatori illustri del passato restano lì a ricordarci che Palermo è stata (e potrebbe ancora essere) altro.
Nel 1953, lo storico francese Fernand Braudel, in visita in Sicilia, scriveva: «Palermo è un punto di sutura tra il disordine e la gloria. È il luogo in cui la civiltà sembra rassegnata alla sua stessa dissoluzione». Parole dure, ma non ingiuste.
La bellezza ferita
È allora sorprendente, quasi miracoloso, che la bellezza resista. Goethe, nel Viaggio in Italia (1787), la descrisse come “la chiave di tutto il Sud, una rivelazione di luce, arte e caos”. E ancora nel 1924, Sigmund Freud scrisse da Palermo a un amico: «Qui tutto è insieme magnificenza e miseria, come in un sogno inquieto».
Palermo, come una Maddalena caravaggesca, splendida anche nella sua rovina, vive nella tensione tra sacro e profano, tra bellezza e abbandono. È questa contraddizione a renderla unica e scandalosa. Un’eresia estetica che la rende più simile a una reliquia profanata che a una città moderna. Un luogo dell’anima, più che della ragione.
La cultura dell’emergenza
Ogni tanto, la città si risveglia. Un commissario, un piano speciale, una campagna stampa. Palermo si ripulisce per qualche mese, i turisti possono immortalare le chiese senza doversi ingegnare per escludere i cassonetti dalle foto. Ma è un’illusione. La crisi torna, come un reflusso. Perché il problema non è tecnico, è culturale.
Danilo Dolci, che in Sicilia seminava speranza a mani nude, ci ricordava che «ciascuno cresce solo se sognato». Palermo non viene più sognata da chi la abita. Non è solo sporcizia: è una mancanza d’amore.
Riscoprire il senso del bello
Allora, che fare? Rifiutare la rassegnazione. Ripartire dai gesti piccoli: l’insegnamento civico a scuola, la vigilanza attiva nei quartieri, l’arte come presidio. Palermo non cambierà con l’ennesima ordinanza, ma con un cambio di sguardo.
Ritrovare il senso del bello è un atto rivoluzionario. E forse è proprio da qui che bisogna ricominciare: dalle parole dimenticate di Goethe, Maupassant, De Roberto. Dalle pietre che parlano, dai mosaici che brillano sotto l’immondizia. Dal rifiuto di essere sepolti vivi nella nostra stessa indifferenza.
Se la bellezza può ancora salvarci, sarà perché avremo imparato a riconoscerla anche tra le rovine. Non per rassegnazione, ma per resistenza. Non per nostalgia, ma per amore.
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