Antonio Perna

Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet

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Mi domando spesso se la Russia di Putin abbia ancora paura degli uomini o se non tema, più che altro, le loro domande.  Perché è proprio questo che colpisce della nuova legge approvata dalla Duma: non vieta le risposte, ma le ricerche.  Non punisce ciò che si dice o si scrive, ma ciò che si cerca, ciò che si pensa prima ancora di pensarlo ad alta voce.

Nel paese che un tempo produceva Dostoevskij e Solženicyn, oggi può costare caro anche solo digitare il nome sbagliato su un motore di ricerca. L’ennesima canzone, l’ennesimo opuscolo, l’ennesimo saggio è finito in un registro ministeriale che somiglia a una bacheca dell’inquisizione. 

Un indice dei libri proibiti per l’epoca digitale, aggiornato da burocrati che probabilmente non hanno mai letto nulla di ciò che vietano. Ma che temono, e quindi vietano. Ed è proprio questa paura che rivela tutto: paura della storia, della cultura, della libertà. Paura perfino dei propri alleati, se persino una Simonyan o una Mizulina cominciano a chiedersi se non si stia esagerando.

Ora, non illudiamoci. In Russia, i voti contrari – quei 67 “niet” – non sono segni di rivoluzione. Sono scricchiolii. Ma se anche solo un po’ di legno comincia a cedere, è segno che la baracca non è più così solida.

Il Cremlino lo sa. E lo sa anche Putin, che chiede lumi al suo ministro con l’aria di chi già conosce la risposta. La verità, per chi governa con la forza, è sempre una seccatura. È imprevedibile, è sfuggente, è pericolosa. Ma la verità, come l’acqua, trova sempre una crepa da cui filtrare.

Ecco perché, in fondo, questa legge non è segno di forza. È segno di debolezza. Di una Russia che non riesce più nemmeno a controllare quello che la sua gente ha voglia di sapere.

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