Antonio Perna
Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet
In un paese dove la televisione ancora detta i ritmi del pensiero collettivo e i talk show si trasformano in tribunali dell’opinione pubblica, il ruolo dei media – stampa compresa – resta decisivo. Non è un mistero: ciò che passa in prima serata o finisce in prima pagina ha un impatto diretto sulla percezione della realtà.
Ma c’è un problema: quando le redazioni scelgono di dare spazio, senza alcun filtro critico, a personaggi che diffondono idee antisemite, antiucraine, antiamericane o antieuropee, alimentando fake news e teorie cospirazioniste, il danno non è solo informativo. È culturale, psicologico, sociale.
Perché in quel momento – magari sotto l’alibi del pluralismo o della “libertà di parola” – quelle idee vengono normalizzate. Entrano nelle case, si fanno ascoltare da milioni di persone e, in tempi di crisi economica, disagio sociale e sfiducia nelle istituzioni, trovano terreno fertile.
Basta osservare la narrazione di certa stampa, come Il Fatto Quotidiano, che da anni martella il pubblico con una retorica ideologica rigidissima, simile più a una propaganda da Pravda che a un giornalismo libero e indipendente. Non è informazione: è ingegneria del consenso. Un’opera culturale e psicologica, sistematica, studiata. Il fine? Orientare l’opinione pubblica, trasformare il dissenso in sospetto, il dubbio in rancore. Così si passa dalla parola all’odio. Dalle narrazioni tossiche alle aggressioni vere.
Lo abbiamo visto nei cortei del 25 aprile, dove sono stati presi di mira cittadini che portavano bandiere ucraine. Lo abbiamo visto – e qui non c’è alcuna ideologia che tenga – nella vile aggressione a un padre ebreo e a suo figlio di sei anni in un Autogrill a Lainate. Non è più solo uno scontro di opinioni. È un clima.
In questi giorni torna spesso alla mente una pagina amara e lucidissima di Erich Maria Remarque, tratta da La notte di Lisbona. Parla della Germania degli anni ’30, ma potrebbe tranquillamente riferirsi a oggi:
“I giornali più importanti erano terribili: mendaci, sanguinari, arroganti. Il mondo intero al di fuori della Germania veniva descritto come degenerato, stupido, traditore… Era cambiato anche lo stile, diventando completamente impossibile. […] Nessuno mostrava il minimo segno di disgusto. Era il loro cibo spirituale quotidiano, familiare come la birra.”
Ecco, questa è la vera posta in gioco: il cibo spirituale quotidiano. Quello che digeriamo senza accorgercene. Che plasmiamo con lo sdegno di facciata, ma interiorizziamo un pezzo alla volta, fino a farlo nostro. Fino a trasformarlo in indifferenza, complicità, oppure – nei casi peggiori – in azione violenta.
La storia ci ha già consegnato tutte le risposte. Anche tutte le soluzioni. Ma come spesso accade, abbiamo scelto di ignorarle. Perché imparare, in fondo, richiede fatica. E ammettere gli errori richiede coraggio. Molto più facile lasciarsi cullare da un talk show, con la birra in mano e il veleno nel cuore …
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