Carmine Mancuso
Ex poliziotto e politico. Figlio di Lenin.
Dal Regno delle Due Sicilie alla spedizione dei Mille: la mafia c’era già La storia ufficiale d’Italia, quella che si studia nei libri, racconta il Risorgimento come un’epopea di eroi, conquiste e libertà. Ma sotto la patina dorata della retorica nazionale, si cela un’altra verità, più opaca, meno raccontata: la mafia era già lì, radicata nel tessuto sociale siciliano, ben prima dell’unificazione. Durante il regno borbonico, infatti, la mafia non solo esisteva, ma si stava già strutturando come potere parallelo. Si mascherava da movimento popolare, prometteva giustizia ai contadini, ai braccianti, agli esclusi. In realtà, si trattava di un’organizzazione parassitaria che seminava terrore e sfruttava il malcontento per consolidare il proprio potere. Quando Garibaldi sbarcò a Marsala nel 1860, i cosiddetti “picciotti” – capibastone e uomini d’onore delle campagne palermitane – erano già pronti a dare una mano. Non per ideali patriottici, ma per convenienza. Il loro appoggio alla spedizione dei Mille non fu un atto di amore per l’Italia nascente, ma un patto non scritto con i nuovi padroni. Quell’accordo implicito con i garibaldini segnò l’inizio di una lunga storia di ambiguità e collusioni. La mafia, resasi utile alla causa unitaria, ottenne in cambio una tolleranza istituzionale che le permise di insinuarsi nei gangli dello Stato. Dove mancava la presenza reale delle istituzioni, subentrava lei: con la sua “protezione”, con il suo controllo del territorio, con la sua legge. Così, fin dall’alba dell’Italia unita, la mafia cominciò a vestire gli abiti del potere. Non era più soltanto un’organizzazione criminale rurale: era già, in nuce, una forza politico-sociale capace di condizionare lo Stato. E questo peccato originale avrebbe segnato tutta la storia d’Italia fino ai giorni nostri.
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