Giusi Patti Holmes

Sono Giusi Patti Holmes, giornalista, scrittrice e, soprattutto, un affollato condominio di donne, bizzarre e diversissime tra loro, che mi coabitano. Il mio motto è: "Amunì, seguitemi".

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Il bellissimo romanzo “La lunga vita di Marianna Ucria”, di Dacia Maraini, pone al centro la figura ferita e sofferente di una nobildonna realmente esistita, Marianna Alliata Valguarnera, sua antenata da parte di madre. Ma quale fu lo spunto che spinse la scrittrice a raccontare questa dolorosa storia familiare?

Durante una visita a Villa Valguarnera, la più sontuosa tra le dimore di Bagheria, restò colpita da un quadro che raffigurava una sua ava con un foglietto stretto fra le mani, l’unico modo per comunicare col mondo circostante essendo “mutola”, così veniva definita. A tal proposito, in un altro suo famosissimo libro “Bagheria”, raccontò: “I miei occhi cadono sul grande quadro dell’antenata che ricordo vagamente nei miei vagabondaggi infantili per villa Valguarnera. È lei, Marianna, a grandezza naturale, chiusa in un vestito rigido, da cerimonia, con la croce di Malta dei grandi Nobili sul petto. I capelli gonfi, grigi, su cui spicca una rosa stinta, qualcosa di risoluto e disperato nei suoi grandi occhi chiari. Le spalle scoperte, le braccia fasciate dalle maniche trasparenti”. Nel ritratto mancano le mani, probabilmente, tagliate in un secondo momento per adattare la tela alla cornice.

Chi era Marianna

Marianna, figlia di Francesco Saverio principe di Valguarnera e donna Agata Branciforte e Ventimiglia, non era nata sordomuta, ma lo era diventata a causa di una violenza subita, a soli sei anni, da suo zio Pietro, fratello minore del padre, a cui peraltro fu data in sposa. La bimba violata in pasto al suo carnefice. Immaginate cosa dovette provare, alla notizia, la giovane nobildonna. Nel testamento, il principe di Valguarnera, scomparso all’età di cinquant’anni, aveva disposto, infatti, che, in assenza di eredi maschi, la primogenita dovesse sposare un membro della famiglia al fine di non disperdere il patrimonio e conservare titoli e cognome.

E Donna Agata?

Una cosa di uomini fu, un segreto di uomini che neanche la Signora sapeva“.

Ma Donna Agata era, veramente, all’oscuro di quell’orrore che aveva trasformato la figlia in “mutila, boccuzza di pesce?” Il mutismo che Marianna aveva frapposto tra sé e il mondo, quel blocco indotto fu, probabilmente, l’unico modo per spegnere quell’urlo di dolore che avrebbe rivelato il terribile segreto, quello stupro, che doveva rimanere, invece, sepolto nei meandri del palazzo.

Il matrimonio con lo zio era stata una violenza ancora più sordida, rispetto a quella già subita, perché arrivata da quegli affetti che, invece, di difenderla l’avevano consegnata al suo aguzzino. Marianna, “vestita di profonde riflessioni” si contrapponeva al Signor marito zio, appena “coperto da brandelli di pensieri”, uno strabivecchi dinanzi al fulgore della gioventù.

Dalla realtà al libro

Nel libro, la piccola Marianna, figlia del duca Signoretto Ucrìa di Fontanasalsa, venne condotta a pochi anni di vita, di fronte al patibolo, per assistere all’impiccagione di un ragazzino. La speranza del padre era quella che una visione così forte la spingesse almeno ad emettere un suono acuto e, invece, gli anni trascorsero nell’assoluto silenzio. Le speranze di accasare la fanciulla dalla “gola di pietra”, bella coi suoi occhi azzurri e la morbida chioma bionda, ma “difettosa”, più passava il tempo e più si riducevano e così la scelta cadde sul duca Pietro Ucrìa di Campo Spagnolo, fratello della madre, (nella realtà era del padre), un uomo severo, schivo, di 46 anni, 33 più di lei, l’orco per quella bambina che aveva conosciuto troppo presto le nefandezze del genere umano.

Nel romanzo è possibile visualizzare due finestre temporali, una aperta sul Seicento, che stava per tramontare portando con sé i suoi vecchi retaggi, l’altra sulla seconda metà del Settecento, l’alba del nuovo giorno. Una ventata di freschezza avvolse la vita di Marianna grazie a Grass, l’illuminato precettore straniero che, oltre alla lingua dei segni, la introdusse al pensiero di Hume, Voltaire, Montesquieu, liberandola da “uno stato di ignoranza gallinacea”.

Ma che siamo noi femmine su questa terra? Carne perché gli uomini se la mangino!” grida la serva Innocenza“.

Marianna, alla morte del marito, si mise alla prova prendendo in mano la gestione delle proprietà, l’amministrazione dei beni di famiglia e recandosi a visitare i feudi, sempre accompagnata dalle figlie e da Saro, il fratello della serva Fila, che la amava custodendo il suo sentimento come un antico cavaliere medievale. E lei? Scoprì la bellezza dell’abbandono e che quel suo corpo, reso muto e sordo dal dolore, aveva una sua voce potente grazie a quel piacere provato a quarant’anni.

Può una donna di quarant’anni, madre e nonna, svegliarsi come una rosa ritardataria da un letargo durato decenni per pretendere la sua parte di miele? Che cosa glielo proibisce? Niente altro che la sua volontà? O forse anche l’esperienza di una violazione ripetuta tante volte da rendere sordo e muto tutto intero il suo corpo?”

Una passione amorosa, la sua, che non poteva diventare altro. Nel finale si respira aria di cambiamento con Marianna che, lasciandosi il passato alle spalle e liberatasi dalle fittissime ragnatele della sua esistenza, si concede il “Grand tour” in Italia, quello che i rampolli maschi delle nobili famiglie europee si concedevano a coronamento della loro formazione.

Il passato era una coda che aveva raggomitolato sotto le gonne e solo a momenti si faceva sentire. Il futuro era una nebulosa dentro a cui si intravedevano delle luci da giostra. E lei stava lì, mezza volpe e mezza sirena, per una volta priva di gravami di testa, in compagnia di gente che se ne infischiava della sua sordità e le parlava allegramente contorcendosi in smorfie generose e irresistibili”.

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