Antonio Perna

Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet

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Tra diciotto mesi gli italiani torneranno al voto. Diciotto mesi: un battito di ciglia per la storia, un tempo lunghissimo per la politica, che in questo arco temporale può consumare leader, logorare governi, rovesciare alleanze. 

Ma il punto non è soltanto chi vincerà o perderà le elezioni: il punto vero è un altro, e riguarda la sostanza della democrazia. Saremo ancora capaci di dar voce al Paese reale, a quella maggioranza silenziosa che oggi osserva senza riconoscersi, o lasceremo che la rappresentanza cada interamente nelle mani delle minoranze più rumorose?

Negli anni Settanta le piazze erano colme di bandiere rosse, di slogan scanditi all’unisono, di cortei che si muovevano come un fiume compatto. 

La guerra del Vietnam era il simbolo universale: il piccolo contro il grande, il popolo contro l’impero. Non c’era assemblea universitaria né corteo sindacale che non agitasse quella bandiera.

Oggi, mezzo secolo più tardi, il copione si ripete. Al posto di Saigon c’è Gaza. Al posto dei volantini ciclostilati ci sono i social, che amplificano ogni urlo e lo trasformano in verità apparente. Ma la logica è la stessa: un conflitto lontano diventa pretesto e specchio della politica interna.

E tuttavia, allora come oggi, la società italiana non coincide con le piazze più rumorose. Non coincide con chi fischia un sindaco colpevole soltanto di invocare la liberazione degli ostaggi israeliani, né con chi irrompe in un’aula universitaria per aggredire un professore definito “filo-ebraico”. L’Italia non è questo. È molto di più, ed è soprattutto molto altro.

Le cronache delle ultime ore raccontano un episodio che illumina questa dinamica. In piazza Flottille, dove si sarebbe dovuto manifestare per la pace, la protesta è degenerata. Fumogeni hanno offuscato l’aria, cori di odio hanno coperto ogni altra voce, i volti coperti hanno sostituito le bandiere. Le pietre sono state lanciate contro le forze dell’ordine, gli insulti contro chiunque non si uniformasse alla retorica dominante del corteo.

La protesta che nasce in nome di un ideale si trasforma così in rito di appartenenza, e infine genera mostri. Non più cittadini che chiedono giustizia, ma gruppi che cercano lo scontro per il gusto stesso dello scontro. Non più parole di pace, ma simboli di intimidazione. Non più piazze, ma teatri di ostilità.

È la parabola antica dell’antagonismo radicale: si nutre di un conflitto reale per svuotarlo del suo contenuto e trasformarlo in scena di potere simbolico. Non parla più di Palestina o di Israele, ma soltanto di sé stesso, del proprio bisogno di visibilità, del proprio desiderio di vivere in opposizione permanente. Mostri che divorano la causa che dicono di rappresentare.

Compito della politica, se ne ha ancora la forza, è distinguere e isolare questi eccessi, impedendo che si sostituiscano alla voce della nazione.

Le somiglianze con gli anni Settanta finiscono qui. Allora la violenza fu infinitamente più grave: si sparava, si uccideva, si rapivano manager e leader politici. Le Brigate Rosse tennero in ostaggio un’intera nazione, e lo Stato stesso sembrò vacillare.

Oggi, per fortuna, quel livello di violenza appare lontano. Ma vi è una differenza altrettanto grande, e questa volta in negativo: allora la politica seppe fare argine. Il Partito Comunista, pur riconoscendosi in molte battaglie sociali, tenne le distanze dall’antagonismo più radicale. La Democrazia Cristiana e i partiti laici seppero governare la rabbia, incanalarla, contenerla. Non senza errori, certo. Ma la politica rimase adulta, capace di distinguere tra rappresentanza ed estremismo.

Oggi non è più così. La sinistra si piega spesso alle minoranze che alzano la voce, lasciandosi trascinare in battaglie che non rappresentano la società reale. La destra, invece di costruire un’alternativa forte e inclusiva, si limita a irridere gli avversari. Così la maggioranza silenziosa resta senza voce, senza parola, senza rappresentanza.

La storia dimostra che le maggioranze silenziose non restano tali per sempre. Possono sopportare a lungo, ma alla fine trovano una voce. E spesso la trovano non nelle vie maestre della democrazia matura, bensì nelle scorciatoie del populismo. È ciò che accade in Francia, dove il gollismo e la socialdemocrazia si sono dissolti lasciando spazio a Marine Le Pen. È ciò che accade in Germania, dove l’AfD cresce minacciando la stabilità stessa della Repubblica federale. È accaduto negli Stati Uniti, con Trump che ha trasformato il rancore sociale in progetto politico.

L’Italia non è immune. Ha già sperimentato la forza del populismo con il Movimento 5 Stelle: un movimento nato dal rifiuto della politica tradizionale, cresciuto fino a conquistare il 30 per cento dei voti e poi imploso nell’incapacità di governare. Ma quel vuoto non si è colmato. Oggi la maggioranza silenziosa rischia di scivolare nuovamente verso forme nuove e più radicali di protesta.

Ecco dunque il vero bivio. Le elezioni del 2027 non diranno soltanto chi governerà, ma se l’Italia sarà ancora capace di darsi un sistema politico stabile, adulto, responsabile. Non basterà che vinca la destra o la sinistra, non basterà un nuovo premier o un nuovo partito: servirà una rappresentanza vera per la società reale, quella che non urla, non fischia, non aggredisce, ma lavora, studia, fatica.

Se la politica saprà ridare voce a questa maggioranza, il sistema potrà ritrovare un equilibrio. Se invece continuerà a inseguire le minoranze più rumorose — come quelle che hanno trasformato piazza Flottille in un teatro di ostilità — il destino sarà scritto: scivoleremo, come altri Paesi prima di noi, nella spirale del populismo, che non governa ma distrugge, non costruisce ma divora.

La democrazia, scriveva Tocqueville, vive di due elementi: la libertà e la rappresentanza. La libertà è rimasta, spesso anche in eccesso, con la sua anarchia rumorosa. Ciò che manca è la rappresentanza: non quella formale, che i partiti ancora offrono, ma quella sostanziale, capace di tenere insieme un popolo e di farlo riconoscere nello Stato.

Diciotto mesi ci separano dal voto. Non sono pochi, non sono molti. Sono il tempo che resta alla politica per dimostrare se sa ancora essere adulta. Perché una democrazia matura non è quella che amplifica il rumore delle minoranze, ma quella che sa ascoltare il silenzio della maggioranza e trasformarlo in parola politica.

Il vero interrogativo del 2027 non è chi urlerà di più nelle piazze, ma se il silenzio – il silenzio operoso, il silenzio sofferente, il silenzio vero – troverà finalmente la sua voce.

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