Mauro Billetta
Frate Cappuccino parroco di Danisinni a Palermo
Stare nel mondo come colui che giudica è un assetto esistenziale assai diffuso ai nostri giorni.
Ci sono molti modi per squalificare l’altro, ad esempio trattandolo in modo approssimativo pur non conoscendolo, generalizzando o etichettandolo come se l’umano fosse riducibile allo stereotipo di turno che misconosce il continuo cambiamento che attraversa popoli e individui.
Generalizzazione comune, ad esempio, è il discorso saccente sull’Africa che non tiene conto dell’essere di fronte ad un continente con cinquantaquattro stati sovrani, oltre tremila gruppi etnici che parlano duemila lingue indigene.
Basti pensare che solo la Repubblica democratica del Congo è otto volte più grande dell’Italia e parlare dei suoi abitanti in modo uniforme equivarrebbe a considerare la popolazione di mezza Europa senza considerare le differenze e la complessità che vi sta dentro.
L’equivoco che sta alla base di questa visione è dato dal minuscolo parametro di confronto ridotto, spesso, al microcosmo che si sceglie di vivere. Le motivazioni di questa postura sono le più disparate e certamente non esprimono le potenzialità offerte ad ogni essere umano.
Assumere uno stile di vita difensivo per molti è strategicamente conveniente. In verità rinunciare al confronto critico e alla possibilità di attraversare il conflitto proprio dell’interazione umana, solo apparentemente rende sicuri perché di fatto procura rigidità del cuore oltre che della mente.
Senza emozioni il pensiero si impoverisce e si blocca la creatività come a regredire in una condizione di stallo ove controllare ogni cosa per sentirsi sicuri.
Il Vangelo di questa domenica (Lc 18, 9-14) affronta la questione attraverso una parabola esemplare che svela l’inganno di tutti i tempi: rimanere al cospetto di se stessi!
Gesù racconta di un fariseo e cioè di un pio israelita che osserva oltre seicento precetti per credersi giusto di fronte agli altri. Anche se assume la posizione eretta non si slancia verso il Cielo ma parla di fronte a se stesso rivendicando il diritto a giudicare tutto e tutti esibendo i propri successi.
Con aria di superiorità si presenta solo apparentemente di fronte a Dio, il suo monologo è volto ad elencare tutti i suoi meriti fino a disprezzare il pubblicano peccatore.
Il suo atteggiamento dunque mostra una precisa distorsione della preghiera che piuttosto dovrebbe aprire al Cielo permettendo di osservare la propria piccolezza a confronto con l’onnipotenza di Dio. Il suo interlocutore è il proprio ego e ciò lo rende competitivo verso l’altro, non ha uno sguardo libero perché continua a misurare la grandezza personale per dimostrare la propria espansione e questo atteggiamento gli procura l’alibi per disprezzare il più fragile. È la stessa logica che giustifica la violazione dei diritti degli ultimi del nostro mondo a cui è negata la cittadinanza, il futuro, la sopravvivenza.
Il superbo troverà sempre giustificazione ai propri atti così come sta accadendo in questi ultimi anni in cui anche un genocidio – quello che si sta compiendo sulla Striscia di Gaza – viene legittimato come un’azione difensiva in vista della propria sicurezza.
La posizione del pubblicano è antitetica a questa. Non è meritocratica perché lui è consapevole del proprio peccato e del male compiuto ma ciononostante non si chiude nel senso di colpa, bensì intuisce la misericordia del Signore.
La sua preghiera infatti è relazionale, dialogica e non vittimistica, realistica per la propria fragilità ma fiduciosa nel cuore di Dio.
L’esperienza di fede permette un passaggio basilare: smettere di misurarsi attraverso il confronto con gli altri.
Il pubblicano percepisce tutta la sproporzione tra la propria meschinità e la misericordia di Dio. Mentre il fariseo si misura con chi gli sta attorno cercando di ergersi al di sopra per apparire migliore, il pubblicano comprende che senza il perdono del Cielo non ha possibilità di vita.
Questo riconoscimento apre alla prossimità e cioè al prendersi cura dell’altro perché ciascuno si sperimenta custode del fratello. La preghiera autentica allora diventa impegno quotidiano per il sofferente e l’oppresso, responsabilità nel difendere la causa dei piccoli.
La solidarietà scaturisce dalla gratitudine verso il Cielo per cui nella condizione altrui si riconosce anche la propria fragilità e la guarigione sperimentata per l’amore gratuito di Dio. Ne scaturisce una necessaria condivisione fino a compromettersi per il bene dell’altro, nessuno escluso.
Luogo: Agorà Danisinni, piazza Danisinni, 1, PALERMO, PALERMO, SICILIA
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