Antonio Perna

Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet

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C’è qualcosa di profondamente italiano nel riemergere ciclico di certe vicende politiche e giudiziarie. 

Come se il tempo non scorresse in linea retta, ma in un cerchio che periodicamente riporta in scena gli stessi protagonisti, gli stessi sospetti, le stesse domande. 

Oggi è di nuovo Salvatore Cuffaro, già presidente della Regione Siciliana, a trovarsi al centro di un’inchiesta che ipotizza attività di mediazione, rapporti d’affari, certamente influenze.

Ma ciò che colpisce non è tanto la sostanza delle accuse – forse più amministrative che penali – quanto il riflesso che esse generano nell’opinione pubblica. 

In Italia, più che altrove, la giustizia non è soltanto un esercizio di diritto: è teatro, simbolo, rito civile e a volte anche espiazione collettiva.

Cuffaro è figura controversa, come lo sono molti che hanno attraversato le acque torbide della politica isolana. Uomo di relazioni, di mediazioni, di quella “politica del contatto” che fu tipica della Prima Repubblica, oggi appare come un interprete di un tempo che non c’è più.

 Eppure, anche la sua storia, con le sue cadute e le sue rinascite, sembra parlare a un Paese che non riesce mai davvero a voltare pagina.

La Procura di Palermo indaga, come è giusto che sia, ma il confine tra accertamento dei fatti e clamore mediatico si fa ogni giorno più sottile. 

La giustizia, in democrazia, è dovere dello Stato; ma la giustizia spettacolo è debolezza della società. Inseguendo il caso, rischiamo di perdere il senso del processo.

Si dice che il potere non muore mai, ma si trasforma. E forse anche Cuffaro, nel suo percorso pubblico, ne è una testimonianza. 

Oggi non governa più una Regione, ma coltiva rapporti sociali, iniziative umanitarie, legami che restano segno di una vitalità politica sopravvissuta alla condanna. Il che non è necessariamente colpa, né merito: è semplicemente il destino di chi ha vissuto la politica come vocazione.

C’è un tratto marziano, quasi marxiano, in questa vicenda: la storia che si ripete, prima come tragedia, poi come farsa, e infine come memoria. Le inchieste, i riflettori, le accuse: tutto ritorna, come se la nostra società avesse bisogno di riaprire ferite per ricordare che esistono.

La domanda vera, però, resta un’altra: la giustizia che cerca verità, o quella che cerca consenso? L’indagine che chiarisce, o quella che consola? Forse è qui, in questo discrimine, che si gioca il futuro del nostro Paese.

Perché la democrazia non è fatta solo di leggi e sentenze, ma di coscienza civile. E una società matura non si misura dalla quantità delle inchieste, ma dalla capacità di capire che nessun uomo, per quanto discusso o potente, può essere giudicato prima dei fatti.

Luogo: SICILIA

 

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