Lei ha detto prima che il convegno ha avuto un valore non solo mediatico. Perché?
Perché è innegabile il rapporto tra il fenomeno della corruzione e l’attività che viene esercitata dalle varie mafie. Ormai il fenomeno mafioso va oltre i confini della Sicilia e dell’Italia stessa, e non a caso si parla di mafia con riferimenti ad altre nazioni anche lontane da noi. Negli ultimi decenni è maturata nella Chiesa una chiara, esplicita e ferma convinzione dell’incompatibilità dell’appartenenza mafiosa con la professione di fede cristiana. Di conseguenza occorre prestare la stessa attenzione e lo stesso netto giudizio sulla corruzione, soprattutto quando degenera in comportamenti mafiosi.

E quindi la Chiesa cosa può o deve fare?
Innanzitutto aiutare tutti a prendere consapevolezza della gravità del fenomeno richiamando al superamento dell’attuale situazione attraverso la conversione al Vangelo, riaffermando il valore del bene comune quale frutto dell’apporto responsabile di tutti e di ciascuno.
Questo è quanto chiesto a tutti. E ai mafiosi cosa chiede?
La Chiesa, in forza della sua stessa missione, rivolge ai mafiosi l’appello alla conversione. Ma questo appello, che deve essere accompagnato dal ministero dell’annuncio della misericordia di Dio, non deve essere strumentalizzato dal mafioso, ad esempio con la scelta della latitanza. Nel caso del mafioso, la conversione comporta un impegno fattivo affinché sia debellata la struttura organizzativa della mafia.

Che vuol dire più in concreto?
Che la conversione non può essere ridotta a fatto intimistico, ma che deve avere una rilevanza pubblica ed esige comunque la riparazione del male fatto. Il mafioso che si converte deve contribuire concretamente, come tutti noi, alla lotta al fenomeno mafioso, facendo in modo che sia debellata la stessa struttura organizzativa della mafia, indicando anche nomi o circostanze utili alle indagini. Tale mancanza si configura come atto di omertà, e ignora invece il dovere della riparazione.

E questo basta?
No, perché c’è un nesso tra peccato di cui ci si pente e pena da assumere in espiazione del peccato stesso. Nel caso di cui parliamo la “soddisfazione” del peccato deve prevedere anche l’espiazione delle pene sancite dalla magistratura, alle quali perciò il mafioso convertito non può e non deve sottrarsi.
Nasce forse da questo ragionamento il suo giudizio sulla vicenda della salute di Riina in carcere?
In qualche modo si. Non ho elementi per giudicare le sue condizioni carcerarie, né è mio compito, ma mi pare evidente che di fronte al perdurare del suo atteggiamento di non collaborazione con la magistratura, anche dopo la conclusione della latitanza, non vi sono motivi perché la sua pena venga in qualche modo modificata.