“La Sicilia è una terra desolata, è una terra di miseria, ora si formeranno tutte situazioni di piccolo banditismo che sarà micidiale, questi nascono per natura, no? Lei ce l’ha presente il carciofo? Come si coltiva il carciofo?”.

Il boss agrigentino Giuseppe Falsone, non sapendo di essere intercettato mentre parla col suo legale, usa la metafora del carciofo per descrivere la recrudescenza della criminalità comune. Emerge dall’indagine dei carabinieri che ha portato a 22 fermi tra i quali l’avvocata Angela Porcello, legale di Falsone accusata di associazione mafiosa.

“Ogni carciofi si vede che fa 20 carduna (i getti della pianta ndr), e così è la cosa… quando non c’è ragionevolezza, ognuno poi ragiona a conto suo, – spiega alludendo al fatto che senza il controllo di Cosa nostra la microcriminalità prolifera- quando non c’è punto di riferimento … la società da noi è una società difficile, c’è da scappare dalla Sicilia, io non lo so come la gente resiste…”

E l’esempio dei carciofi e dei carduna calza a pennello visto che la mafia agrigentina controllava e sfruttava il settore del commercio di uva e altri prodotti agricoli nella provincia accaparrandosi ingenti risorse economiche che andavano ad alimentare le casse dei clan e limitavano il ricorso ad attività illecite rischiose come il traffico di droga.

Nello stesso tempo le cosche presidiavano la principale attività economica del territorio in una provincia saldamente legata al mercato agroalimentare. Il particolare è emerso nell’inchiesta dei carabinieri del Ros che oggi ha portato a 22 fermi.

In particolare, dall’indagine è emerso che un agente in servizio nel carcere di Agrigento, durante un colloquio telefonico tra il boss ergastolano Giuseppe Falsone, ex capo della mafia agrigentina, e un’avvocata, fermata oggi con l’accusa di mafia, avrebbe consentito alla legale di portare in carcere lo smartphone e di usarlo rispondendo alle telefonate ricevute nel corso dell’incontro con Falsone.

Il boss, inoltre, sarebbe riuscito a inviare messaggi all’ esterno, perché in alcuni istituti di pena non viene controllata la corrispondenza tra i detenuti al 41 bis e i propri difensori. Sfruttando questo limite nella vigilanza Falsone, attraverso il suo avvocato, sarebbe riuscito a fare uscire dal carcere i messaggi che, in prima battuta, essendo destinati a terzi, erano stati censurati dal magistrato di sorveglianza.

L’indagine ha accertato inoltre che boss di Agrigento, Trapani e Gela, tutti detenuti nel carcere di Novara, sfruttando inefficienze nei controlli dialogavano tra loro riuscendo anche a saldare alleanze tra cosche di territori diversi.

Durante l’inchiesta, è stata anche intercettata una telefonata di un agente di polizia penitenziaria in servizio ad Agrigento all’avvocata indagata: i due avrebbero parlato di un assistito della legale, detenuto in cella per mafia. L’agente avrebbe informato la donna che il suo cliente l’indomani sarebbe stato spostato in aereo in un altro carcere.

Non sono mai cessati gli storici rapporti tra la mafia siciliana e Cosa nostra americana scoperti già negli anni ’70 da Giovanni Falcone, il giudice ucciso a Capaci nel ’92. Lo conferma l’inchiesta del Ros che oggi ha portato a 22 fermi. Dall’indagine è emerso che emissari statunitensi della “famiglia” dei Gambino di New York nei mesi scorsi sarebbero andati a Favara, nell’agrigentino, per proporre ai clan locali business comuni. (ANSA).