Capimafia e boss della Stidda sono coinvolti nell’inchiesta della Dda di Palermo che oggi ha portato a 23 fermi.

L’indagine colpisce le famiglie mafiose agrigentine e trapanesi ed è coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Paolo Guido e dai pm Gery Ferrara, Claudio Camilleri e Gianluca De Leo.

Secondo le indagini dei carabinieri i boss riuscivano a comunicare dal 41 bis colabrodo tra di loro. Nel corso dell’indagine è stato trovato un  al pizzino firmato Matteo Messina Denaro. Gli incontri si svolgevano nello studio di una nota penalista agrigentina divenuto luogo di incontro fra boss all’infedeltà di uomini in divisa.

La Direzione distrettuale antimafia di Palermo ha disposto il fermo di ventitré persone. Il grande assente, ancora una volta, è il latitante trapanese.

Tra i fermati ci sono sei capimafia, tre capi della Stidda, un ispettore e un assistente capo della polizia. E ci sono pure poliziotti penitenziari sotto inchiesta. Sono in corso perquisizioni in alcuni carceri di massima sicurezza.

I CARABINIERI PIAZZANO LE CIMICI IN UNO STUDIO LEGALE 

Nel corso delle indagini è emerso che nello studio di una nota avvocata penalista agrigentina, Angela Porcello (difensore di Giuseppe Falsone e di atri tre capimafia al 41 bis), si sono svolti summit. La donna pensava che la sua sede fosse zona protetta per via delle garanzie previste dal diritto di difesa.

Ciò è valso fino a quando i carabinieri non hanno capito che il legale avrebbe dismesso la toga per divenire organizzatrice del mandamento mafioso di Canicattì, forte anche del legame con il compagno uomo d’onore.

Sono stati documentati nello studio incontri fra i boss di Canicattì, Ravanusa e Favara, alcuni stiddari e un palermitano, fedelissimo di Bernardo Provenzano.

Scrive la procura: “Aveva deciso di dismettere la toga e indossare i panni della sodale mafiosa, assurgendo pian piano addirittura al ruolo di vera e propria organizzatrice del mandamento mafioso di Canicattì”.

Angela Porcello era la legale dello storico boss Giuseppe Falsone, il capo della provincia mafiosa di Agrigento arrestato nel 2010 a Marsiglia. Era lei a far uscire dal carcere i messaggi del padrino. E anche altri boss l’avevano nominata. Così, l’avvocata di Canicattì era diventata una perfetta messaggera.

IL RITORNO DEGLI ERGASTOLANI 
Angelo Gallea, il mandante dell’omicidio del giudice Livatino, aveva lasciato il carcere il 21 gennaio 2015, dopo aver scontato 25 anni. Era ritenuto un detenuto modello.

Ora, i pm di Palermo scrivono nel fermo che lo riporta in carcere: “Il provvedimento che ammetteva al beneficio della semilibertà, emesso dal tribunale di sorveglianza di Napoli, si basava tra l’altro anche sulla declaratoria di “impossibilità” della sua collaborazione con la giustizia”. Ovvero, la dichiarazione che tutti i reati da lui commessi erano stati accertati e dunque sarebbe stata impossibile una sua collaborazione.

In realtà, Gallea conservava ancora tanti segreti, che sono diventati la sua forza nel momento in cui è tornato in libertà. Segreti su vecchi complici, affari e patrimoni mai scoperti. Il 6 ottobre 2017, anche un altro esponente della “Stidda”, pure lui condannato all’ergastolo, era stato ammesso alla semilibertà dopo 26 anni dal tribunale di sorveglianza di Sassari, con l’autorizzazione a svolgere attività lavorativa all’esterno del carcere. E pure lui era tornato a delinquere.

“Entrambi hanno sfruttato la disciplina premiale prevista anche per i detenuti ergastolani – scrivono i magistrati nel loro provvedimento di fermo – per ritornare ad agire sul territorio con i metodi già collaudati in passato e così rivitalizzare una frangia criminale-mafiosa, quella della Stidda, condannata da tempo all’estinzione, e proiettarla con spregiudicatezza e violenza nel territorio agrigentino”.

A differenza del passato, Cosa nostra e Stidda avevano stilato un “accordo di pace”, tuttavia, osservano gli inquirenti, “continuavano a guardarsi con diffidenza”. In gioco c’erano soprattutto tanti affari, legati alle mediazioni nel mercato ortofrutticolo della provincia di Agrigento.

I BOSS E LE FALLE NEL CARCERE DURO 
“Nel corso della presente indagine – è un altro capitolo dell’atto d’accusa della procura di Palermo – sono stati registrati, in diverse occasioni e su più livelli, preoccupanti spazi di gravissima interazione fra detenuti, fra detenuti e l’esterno nonché fra detenuti e appartenenti alla polizia penitenziaria; interazione che l’attuale sistema penitenziario non è riuscito, in tali momenti, a evitare”.

Nella casa circondariale di Novara, tre autorevoli boss – di Agrigento, Trapani e Gela – “riuscivano ad entrare in contatto, a dialogare tra loro, in alcune occasioni financo a scambiarsi informazioni finalizzate ad assicurarsi un canale di comunicazione con l’esterno”. Eppure non facevano l’ora d’aria insieme. “Hanno sfruttato – accusa i pm – le inefficienze dei controlli da parte del personale della polizia penitenziaria”. Per chi indaga, “una gravissima vicenda”; fino ad oggi quei mafiosi si sono scambiati solo “informazioni”, ma “quanto è accaduto potrebbe ripetersi – rilevano i magistrati – con progetti e strategie di altra natura, magari addirittura tali da mettere in pericolo, come purtroppo la storia insegna, anche la sicurezza dello Stato”.

Una “vicenda gravissima”, con un paradosso, anche questo diventa una pesante accusa mossa dai pm di Palermo: “L’essere sottoposti al regime del 41 bis piuttosto che costituire per i mafiosi un argine comunicativo insuperabile è stata addirittura un’occasione di incontro e di scambi di informazioni, altrimenti rischiosissimo se non addirittura inimmaginabile laddove gli stessi capimafia fossero stati liberi”.

COMANDA MATTEO MESSINA DENARO 

Matteo Messina Denaro, capomafia trapanese latitante da 28 anni, è ancora riconosciuto come l’unico boss cui spettano le decisioni su investiture o destituzioni dei vertici di Cosa nostra. Emerge dall’inchiesta dei carabinieri del Ros che oggi ha portato al fermo di 22 presunti mafiosi trapanesi e agrigentini. Anche Messina Denaro è destinatario del provvedimento di fermo, che è stato emesso per 23 persone, ma eseguito solo nei confronti di 22, visto che il padrino trapanese resta latitante. Il ruolo del boss di Castelvetrano viene fuori nella vicenda relativa al tentativo di alcuni uomini d’onore di esautorare un boss dalla guida del mandamento di Canicattì. Dall’indagine emerge che per di realizzare il loro progetto i mafiosi avevano bisogno del beneplacito di Messina Denaro che continua, dunque, a decidere le sorti e gli equilibri di potere di Cosa nostra pur essendo da anni imprendibile.

 

 

 

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