Antonio Perna
Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet
C’è una fotografia che ritorna come un fantasma gentile e inquietante: l’edizione del Daily Mirror del 15 settembre 1938. Un titolo a lettere cubitali — “Let’s try to find peaceful solution” — sovrasta il volto rassicurante di Neville Chamberlain, l’uomo che volava verso Hitler con un biglietto di sola andata per la storia.
Dietro quelle parole c’era la tragedia già scritta: l’Europa sull’orlo del conflitto, la Cecoslovacchia destinata a essere smembrata, il grande negoziato che voleva essere salvezza e che invece divenne preludio di guerra.
Quella pagina è più di un reperto. È uno specchio incrinato: ogni volta che lo guardiamo vediamo due immagini sovrapposte — l’illusione della pace e la realtà del compromesso al ribasso. Oggi, quell’immagine sembra quasi riflettersi nella cronaca recente: un volo annunciato, un incontro bilaterale, un palcoscenico scelto non a caso.
Il presidente Trump e Vladimir Putin si sono visti il 15 agosto 2025 in Alaska. Lo hanno annunciato, senza infingimenti, con il tono di chi propone un gesto di “buon senso” al mondo intero. La retorica è la stessa di allora: parliamo per fermare la guerra. Ma la domanda, oggi come ieri, è: chi parla, per chi, e a che prezzo?
Il teatro e i protagonisti
L’Alaska non è un luogo neutrale come potrebbe sembrare: è territorio americano, ma geograficamente prossimo alla Russia. È simbolo di confine e di gelo, metafora perfetta di un dialogo che può sciogliersi o irrigidirsi in pochi minuti.
Trump, tornato alla Casa Bianca, ha bisogno di mostrare al suo elettorato un’immagine di leadership pragmatica e capace di “chiudere i dossier” con la stretta di mano. Putin, dal canto suo, ha necessità di rompere l’isolamento internazionale e far passare il messaggio che la Russia resta un interlocutore globale, nonostante le sanzioni e la prosecuzione della guerra in Ucraina.
A osservare la scena manca però il terzo attore, quello più ferito: Kiev. Il presidente Zelensky ha già avvertito che ogni accordo che escluda l’Ucraina è privo di legittimità. È qui che il passato s’insinua nel presente: nel 1938 a Monaco si trattò il destino della Cecoslovacchia senza la Cecoslovacchia. Il risultato fu un “accordo” che lasciò Hitler libero di proseguire.
L’illusione della pace veloce
C’è una tentazione costante nella politica internazionale: credere che la pace possa essere decisa in una stanza da due uomini potenti, con il mondo come spettatore e le vittime come comparse. È una tentazione antica, quasi comprensibile, perché promette di ridurre il caos a un gesto, a una firma, a un comunicato congiunto.
Ma la storia ci ha insegnato che queste “paci lampo” sono fragili. Senza un processo multilaterale, senza garanzie verificabili e senza il consenso dei popoli coinvolti, ogni intesa diventa carta sottile, pronta a strapparsi al primo vento contrario.
Allora Chamberlain tornò a Londra agitando il foglio firmato da Hitler e proclamando “peace for our time”. I giornali lo acclamarono, la gente applaudì. Un anno dopo, il mondo bruciava. Oggi non siamo nel 1938, ma il rischio di confondere la diplomazia con il marketing politico è il medesimo.
La responsabilità delle parole
Le parole sono atti politici. Chiamare “pace” ciò che è solo sospensione della guerra significa piegare il linguaggio fino a svuotarlo. Un accordo che ignori i confini riconosciuti dal diritto internazionale o che lasci congelate le violazioni non è pace, è anestesia.
E un’anestesia non guarisce: addormenta. Spesso per permettere che l’operazione — questa volta geopolitica — si compia senza che il paziente abbia voce.
Trump e Putin lo sanno: anche un accordo imperfetto potrebbe dare loro dividendi politici immediati. Ma la storia, quella vera, non paga in tempo reale: presenta il conto più avanti, e lo fa salato.
La lezione del passato
Non serve indulgere in parallelismi pigri. La Russia di oggi non è la Germania nazista del ’38, e l’Ucraina non è la Cecoslovacchia di allora. Ma la struttura del problema — il negoziato bilaterale che ridefinisce il destino di un terzo soggetto — è sorprendentemente simile.
E la lezione resta: la pace senza giustizia è un armistizio travestito. L’accordo che non ascolta i popoli prepara la prossima guerra.
Una scelta di metodo e di morale
C’è ancora tempo, e c’è ancora spazio, per evitare che l’incontro in Alaska sia un monologo a due voci. Potrebbe diventare, invece, il primo atto di un processo vero, multilaterale, con garanzie internazionali, controllo sul rispetto degli accordi, partecipazione di tutte le parti.
La diplomazia non è fatta solo di gesti simbolici: è fatta di architettura, di strutture che impediscano ai muri di crollare al primo terremoto.
Chi governa ha il dovere di parlare, ma anche l’obbligo di includere. La foto del 1938 ci ricorda che le strette di mano non bastano. Se vogliamo che la storia non si ripeta, dobbiamo piegarla verso pratiche nuove, dove il compromesso non sia sinonimo di resa e la pace non sia il nome elegante di un silenzio imposto.
Perché la vera pace — ieri come oggi — non è mai un atto tra due uomini, ma un patto tra tutti quelli che ne pagano il prezzo.
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