Mauro Billetta

Frate Cappuccino parroco di Danisinni a Palermo

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No, non sono terroristi. È paradossale quanto afferma il ministro della Sicurezza Nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir quando, riferendosi alla Global Sumud Flotilla, appella i pacifisti come “terroristi” indicando che per questa ragione saranno condotti nelle prigioni di massima sicurezza.

Una intimidazione che non ci sorprende considerato che anche i bambini di Gaza così come i civili in fila per avere dopo giorni un po’ di cibo sono stati trattati al pari dei terroristi.

No, non si tratta di piano di “migrazione volontaria” dei palestinesi dalla Striscia di Gaza come ribadisce il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ma di una deportazione strategica di due milioni di persone che non procurerà “un futuro migliore” ma l’annichilimento del popolo palestinese.

O, ancora, quando afferma che “non c’è nessuna politica di fame a Gaza” e nel mentre decine di migliaia di persone muoiono di stenti. Netanyahu arriva a definire la sua strategia come “una missione per le generazioni future” ma, di fatto, dovrebbe solo riconoscere che sta compiendo un deliberato genocidio…

Quando la semantica è ridefinita siamo di fronte ad una mistificazione dei fatti e, dunque, non ci sono più regole comprensibili, tutto diventa arbitrario e soggettivo, molto più grave quando simile delirio diventa collettivo.

A fronte di questa immane tragedia abbiamo tutti bisogno di restituire verità alle parole perché non è possibile sintonizzarsi con questa narrazione arbitraria nel mentre che sotto gli occhi del pianeta si sta compiendo lo sterminio di un popolo: adeguarsi significherebbe morire dentro e spegnere la passione che è propria dell’umano.

Da tutto il pianeta deve levarsi il grido di Pace ma attraverso fatti concreti perché sono le scelte e le azioni conseguenti a restituire autenticità alle parole. 

Resistere, sumud in arabo, è la parola che pare più appropriata per ancorarsi alla realtà e cercare di costruire una storia differente, dove gli ultimi del mondo non vengono abbandonati ma trovano la solidarietà di tanti.

Per resistere è necessario compromettersi, stare a fianco, farsi prossimi prendendosi cura del travaglio altrui che diventa il proprio. È quello che hanno scelto gli operatori umanitari, i giornalisti, i religiosi di Gaza City che hanno deciso di rimanere accanto alle famiglie spossate per il quotidiano martirio che dura da due anni e che hanno deciso di non rispettare l’ordine di evacuazione perché, altrove, di futuro non ne vedono affatto.

È lo stesso motivo per cui cittadini di tutto il mondo si sono uniti per partecipare alla missione umanitaria Global Sumud Flotilla, al fine di portare viveri, acqua e medicine a Gaza.

Resiste chi nella propria città e a casa continua a mantenere l’attenzione scrivendo, parlando e partecipando alle diverse manifestazioni a difesa del popolo palestinese. La denuncia è un atto politico di partecipazione civile necessario per creare ostacoli alle politiche di oppressione. 

L’azione di resistenza quando si espande interpella i governi e chiede conto delle scelte politiche che dovrebbero esprimere la sensibilità di un Paese.

Oggi la narrazione del nostro Governo pare ancora allinearsi con la grammatica che nega la storia di un popolo che grida per il dolore ma non ha più la forza neppure per piangere considerata la debolezza immane. 

Nel mese di luglio quando la fame esasperava milioni di persone e oltre un migliaio venivano uccisi a Gaza nel mentre che cercavano di procurarsi gli alimenti, la Farnesina comunicava la distribuzione di ingenti quantitativi di aiuti umanitari sotto il cappello mediatico della “Food for Gaza”. Al contempo, ma è sempre una questione semantica, l’Italia continuava a vendere ad Israele i pezzi delle armi prodotte nelle proprie fabbriche e successivamente assemblate dopo l’arrivo a Tel Aviv.

Con un gioco di parole abbiamo tradito la nostra Costituzione che all’art. 11 sancisce: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Ora è tempo, e siamo troppo in ritardo, di restituire verità alle parole e questo lo si potrà fare solo con atti concreti: difendendo gli operatori umanitari, così è la Flotilla, partiti per Gaza; rivendicando la pace senza ulteriori spargimenti di sangue; impedendo ogni tipo di supporto alle guerre in atto e boicottando le economie che di fatto vi contribuiscono.

Solo così potrà aprirsi uno spiraglio per riscrivere la storia futura che, altrimenti, sembrerebbe votata alla disumanizzazione totale. In questo modo saremo autorizzati a rinominare ossia a dare nome alle cose contribuendo alla crescita di veri processi generativi.

Abbiamo bisogno di dare voce ad un nuovo alfabeto di umanità capace di sintassi inedite che tengano unite, in una grammatica delle relazioni e dell’interazione sociale, popoli e culture differenti in modo da poter formulare nuove frasi che ci connettano verso comunità più umane e vivibili.

Torna alla mente come tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo il bisogno di comunicare tra i popoli bagnati dal Mediterraneo produceva una lingua parlata detta sabir. Un linguaggio condiviso capace di tessere legami di umanità evidenziati dal riconoscersi, nel mentre che cittadini di mondi differenti attraversavano il Mediterraneo.


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