Davide Romano
Davide Romano è attivo nel mondo del volontariato e appassionato di studi religiosi, lavora da molti anni nell’ambito della comunicazione politica, culturale, religiosa e sindacale.
C’era una volta il prete che era prete e basta. Nasceva prete, cresceva prete, moriva prete. Come un albero che mette radici e non si muove più dal suo terreno. Poi è arrivata la modernità, con i suoi turbamenti e le sue inquietudini, e ha insegnato anche ai preti che il cuore può battere per ragioni che non stanno scritte nel breviario.
Don Francesco (il nome è di fantasia, ma la storia è vera) aveva trentacinque anni quando ha incontrato Maria. Lei, maestra elementare, lui parroco di una piccola comunità lombarda. Si sono guardati durante una riunione per l’oratorio e hanno capito che quella che provavano non era carità cristiana. Era ben altro. Dopo sei mesi di tormenti, don Francesco ha chiesto la dispensa dal celibato. Dopo un anno si è sposato. Dopo tre anni è tornato a bussare alla porta del vescovo, chiedendo di riprendere il ministero. “Il matrimonio mi ha insegnato che il mio primo amore era sempre stato Dio”, ha spiegato.
Non è un caso isolato. Secondo i dati della Civiltà Cattolica, in 35 anni sono stati 11.213 i sacerdoti che sono “ritornati” a fronte di circa 57.000 che hanno abbandonato. Una proporzione che, se fosse applicata al mondo del calcio, farebbe parlare di una società che recupera un quinto dei suoi giocatori ceduti. Non male, per una squadra che gioca in serie A da duemila anni.
Il fenomeno dei preti che lasciano per amore ha radici profonde nella crisi dell’identità sacerdotale contemporanea. Marco Marzano, sociologo che ha studiato a fondo la questione, ha intervistato decine di ex sacerdoti e ha scoperto che il problema non è tanto la mancanza di vocazioni quanto la trasformazione del concetto stesso di vocazione. Gli anni di seminario trasformano in modo decisivo il rapporto con la sessualità dei futuri preti, creando spesso una frattura tra l’ideale teorico e la realtà pratica.
I numeri del paradosso
Le statistiche parlano chiaro, anche se la Chiesa preferisce non sventolarle troppo. Ogni anno, in Italia, una quarantina di sacerdoti chiede la dispensa dal celibato. Di questi, la metà circa dichiara di aver incontrato “l’amore della vita”. L’altra metà invoca ragioni di “crisi vocazionale” o “incompatibilità con il ministero”. Ma dietro questi eufemismi ecclesiastici si nasconde spesso la presenza di una donna.
Il caso più eclatante degli ultimi anni è quello di Xavier Novell Gomá, vescovo emerito di Solsona, sospeso a divinis latae sententiae nel 2021 per essersi sposato con rito civile con una sessuologa autrice di romanzi erotici. Un vescovo che lascia per una scrittrice di romanzi erotici: c’è tutto il paradosso della condizione sacerdotale contemporanea in questa storia che sembra uscita da un film di Buñuel.
Ma il vero paradosso non è quello dei preti che lasciano, bensì quello di chi torna. Perché è vero che qualcuno torna, e questo fa riflettere più di mille trattati di teologia. Cosa spinge un uomo che ha scelto l’amore terreno a tornare sui suoi passi? Che cos’è che non ha funzionato nel matrimonio? O che cos’è che ha funzionato troppo bene nel sacerdozio?
Il ritorno del figliol prodigo in tonaca
Don Alberto (anche questo è un nome di fantasia) era parroco in una città del Centro Italia quando ha conosciuto Giulia, una divorziata con due figli. Ha chiesto la dispensa, si è sposato, ha fatto il padre per cinque anni. Poi ha sentito che gli mancava qualcosa. “Non è che non amassi mia moglie e i bambini”, ha raccontato al vescovo quando è tornato a chiedere la riammissione. “È che sentivo che Dio mi stava chiamando di nuovo”. La Chiesa, che è madre e matrigna insieme, lo ha riammesso dopo un periodo di riflessione di due anni.
Storie come queste fanno riflettere sulla natura del sacerdozio e sull’autenticità della vocazione. Se un prete può lasciare per amore e poi tornare per amore, che cos’è veramente la vocazione? Un capriccio? Una fase della vita? O forse qualcosa di più profondo e misterioso che noi, laici, non possiamo comprendere?
Sulla questione Papa Francesco ha sempre mantenuto una posizione di equilibrio. Come ha scritto ai seminaristi francesi: “L’esigenza del celibato non è innanzitutto teologica, ma mistica: chi può capire, capisca!” Il Pontefice ha più volte chiarito che “il celibato sacerdotale non è un dogma di fede ma una regola di vita”, aprendo teoricamente la porta a discussioni future, pur ribadendo il valore di questa tradizione millenaria.
Non è un fenomeno nuovo. Quello che è nuovo è la franchezza con cui se ne parla e la possibilità, per chi sbaglia, di correggere il tiro. Una volta, un prete che lasciava spariva per sempre. Oggi può tornare, e questo cambia tutto.
Il cuore ha le sue ragioni
La Chiesa ha sempre saputo che il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Pascal era un laico, ma aveva intuito qualcosa che vale anche per i preti. Il problema è che la Chiesa, istituzione millenaria, ragiona in termini di secoli, mentre il cuore umano ragiona in termini di battiti. E a volte i battiti vanno più veloci dei secoli.
Il celibato sacerdotale è una disciplina che la Chiesa ha sviluppato nel corso dei secoli, come ricorda il Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri del 1994, che parla di “profonde motivazioni teologiche e pastorali che sostengono il rapporto tra celibato e sacerdozio”. Ma la discussione spesso si ferma agli aspetti normativi, perdendo di vista l’aspetto umano. Un prete che si innamora non è un prete che fallisce, è un uomo che scopre una dimensione della sua umanità che credeva di aver sacrificato per sempre.
Il paradosso è che spesso questi preti, dopo aver vissuto l’esperienza dell’amore umano, tornano al sacerdozio con una consapevolezza diversa. Sanno che cos’è l’amore tra uomo e donna, sanno che cos’è la paternità, sanno che cos’è la vita di coppia. E questo, invece di allontanarli da Dio, li avvicina. Come se l’amore umano fosse stato una scuola per capire meglio l’amore divino.
La lezione di chi torna
Forse la vera lezione di questi preti che vanno e vengono non è nella loro incostanza, ma nella loro capacità di riconoscere i propri errori. In un mondo che premia l’apparenza e punisce la sincerità, questi uomini hanno il coraggio di dire: “Mi sono sbagliato”. Prima quando hanno lasciato, poi quando sono tornati. O viceversa.
Gli eroi sono quelli che rimangono in trincea anche quando infuria la battaglia, scrive qualcuno. Ma forse c’è eroismo anche in chi ha il coraggio di ammettere che la trincea non era quella giusta e cerca di tornare in quella che sente come la sua vera casa.
Il fenomeno dei preti che lasciano e tornano è un termometro della crisi dell’identità sacerdotale, ma anche della sua vitalità. Una Chiesa che sa accogliere i suoi figli che sbagliano è una Chiesa che ha capito qualcosa dell’amore. E forse questo è più importante di tutte le statistiche e di tutti i trattati di teologia.
In fondo, anche San Pietro rinnegò tre volte. E poi tornò. E Cristo lo fece capo della sua Chiesa. Forse la vera differenza non è tra chi sbaglia e chi non sbaglia, ma tra chi ha il coraggio di tornare e chi preferisce restare nell’errore. I preti che tornano, nel loro piccolo, sono un po’ come San Pietro. Hanno rinnegato, ma poi sono tornati. E questo, forse, li rende più umani. E più preti.
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