Antonio Perna
Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet
C’è un passaggio, breve ma folgorante, in un libro che oggi torna a parlarci con voce profetica.
“Il monopolio sulla verità è stato infranto, così come quello sulla menzogna.”
Così scriveva, nel 2019, Dmytro Kuleba, quando ancora non era ministro degli Esteri ma soltanto – si fa per dire – un giovane diplomatico ucraino che aveva compreso ciò che altri avrebbero intuito molto dopo: la realtà, nel mondo post-moderno, non è più un fatto. È una costruzione. E come tale, può essere fabbricata, manipolata, dissolta.
Erano gli anni in cui la guerra vera, quella fatta di carri armati, fosse comuni e bambini sepolti sotto le macerie, non era ancora scoppiata. Ma la guerra delle immagini, delle parole, dei racconti e delle finzioni era già pienamente in atto. Una guerra asimmetrica, subdola, che il Cremlino sapeva condurre con la stessa perizia con cui, decenni prima, i sofisti greci trasformavano l’ingiusto in giusto con la sola forza della retorica.
Kuleba aveva vissuto il trauma del 2014. La Crimea inghiottita. Le repubbliche separatiste nate da plebisciti grotteschi, lanciati sotto l’occhio benevolo dei kalashnikov russi. Aveva visto con chiarezza il disastro che si compiva non solo sui confini geopolitici ma nel tessuto stesso della realtà condivisa. La verità ucraina veniva derisa, sminuita, rovesciata. Le accuse di neonazismo rivolte al governo di Kiev, l’ossessivo richiamo alla protezione delle minoranze russofone – una scusa antica quanto la politica imperiale – attecchivano in Occidente. Perché la menzogna, quando è detta mille volte e con voce stentorea, si traveste da verità. E la verità, se bisbigliata, appare come sospetta.
Ma il punto centrale è un altro, e Kuleba lo coglie con precisione: la guerra per la realtà non si combatte con i fucili. Si combatte nelle menti. Si vince – o si perde – nelle coscienze.
Già nel 2017, lo Swedish Institute of International Affairs metteva in guardia: la macchina della disinformazione russa è sistematica, strategica, scientificamente articolata. Non si limita a produrre falsità. Produce realtà alternative. Clona siti di giornali occidentali, crea notizie inesistenti, attribuisce ad altri le proprie colpe, insinua dubbi, inscena indignazioni. È l’operazione Doppelganger, svelata nel 2022: una realtà fittizia costruita in laboratorio per corrodere la fiducia pubblica, per insinuare l’idea che nulla sia certo, che tutto sia opinabile, che la verità non esista – e che quindi tanto vale credere a ciò che conforta i propri pregiudizi.
È il principio stesso della post-verità, categoria che non definisce un’epoca, ma un abisso: quello in cui le parole smettono di indicare il mondo e cominciano a costruirne uno fittizio.
I numeri non mancano. NewsGuard ha contato oltre cinquecento siti di disinformazione attivi in Europa. Il caso Bucha – centinaia di civili trucidati, corpi lasciati sull’asfalto, famiglie distrutte – è stato negato, distorto, addirittura ribaltato. La vittima diventa carnefice, l’invasore diventa liberatore. Ma ciò che sgomenta non è la menzogna in sé. È la facilità con cui attecchisce. È la disponibilità del pubblico ad accoglierla, ad abbandonarsi ad essa, come a una droga che lenisce l’angoscia dell’incertezza.
Viviamo un tempo – e questo è il dramma – in cui la verità non interessa più. Interessa la coerenza narrativa, l’identità tribale, il conforto del “noi contro loro”. Ed è qui che la propaganda russa trova il suo terreno più fertile. In una società europea dove la ragione è fiaccata, l’informazione è rapida, l’attenzione è scarsa e la memoria è labile.
Nel mondo classico, la aletheia – la verità – era lo svelamento. Il levarsi del velo. Oggi, al contrario, è il velo stesso che viene elevato a realtà. Una verità velata, mascherata, rovesciata. Una verità offuscata, nella quale perfino un presidente pacato e integerrimo come Sergio Mattarella può essere accusato, con linguaggio da barzelletta tragica, di far parte di un complotto nazista.
Ma il cuore della questione, e con questo torniamo a Kuleba, è uno soltanto: nessuna regolamentazione potrà mai bastare. Nessun algoritmo, nessuna legge, nessuna verifica automatica potrà salvare la verità se prima non saranno gli individui a volerne la salvezza. Se non ci sarà, in ciascuno di noi, l’irriducibile volontà di comprendere. La sete socratica di distinguere il vero dal falso. Il coraggio – perché di questo si tratta – di guardare in faccia la realtà, anche quando fa male, anche quando delude, anche quando smentisce le nostre convinzioni più radicate.
Chi perde la verità, perde se stesso. E forse, senza saperlo, Kuleba ci stava avvertendo di questo. Di un pericolo più grande della guerra: quello di non sapere più riconoscere chi la sta combattendo e perché.
Questo contenuto è stato disposto da un utente della community di BlogSicilia, collaboratore, ufficio stampa, giornalista, editor o lettore del nostro giornale. Il responsabile della pubblicazione è esclusivamente il suo autore. Se hai richieste di approfondimento o di rettifica ed ogni altra osservazione su questo contenuto non esitare a contattare la redazione o il nostro community manager.


Commenta con Facebook