Antonio Perna
Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet
I Greci avevano una parola per descrivere l’eccesso, la tracotanza, l’orgoglio che non conosce limiti: hybris.
Era il peccato supremo dell’eroe tragico, la ribellione contro l’ordine del cosmo. Chi osava varcare quella soglia era destinato alla nemesis, alla punizione inesorabile che gli dèi infliggevano a chi si credeva onnipotente.
Vladimir Putin, da oltre vent’anni al Cremlino, incarna oggi questa figura. La sua parabola politica non è quella del semplice autocrate che governa un Paese sterminato con pugno di ferro. Non è soltanto l’uomo che annette territori, che minaccia i vicini, che calcola rapporti di forza e sfrutta debolezze altrui. In lui agisce qualcosa di più profondo: una vera e propria hybris storica, la convinzione che il destino della Russia e il proprio destino personale coincidano, che il secolo XXI debba ancora vedere il trionfo dell’impero russo, trasfigurato in un mito eterno.
Emmanuel Macron, con la cautela del capo di Stato, lo lascia intendere: la Russia di Putin è diventata una potenza di destabilizzazione costante. Non può permettersi la pace, perché la pace significherebbe accettare la misura, riconoscere un limite. E il limite è ciò che Putin non può concepire. Il suo sistema sopravvive solo divorando: territori, energie, uomini. Come Saturno nei dipinti di Goya, egli divora per non essere divorato.
Eppure, attenzione: la hybris non è soltanto russa. È anche europea.
Noi europei abbiamo creduto – dopo il crollo del Muro, dopo Maastricht, dopo l’euro – di essere entrati in una sorta di post-storia. Abbiamo creduto che le guerre fossero un ricordo museale, che il mercato e la diplomazia avessero sostituito per sempre la forza e la paura. Abbiamo pensato che la democrazia liberale fosse irreversibile. Questa è stata la nostra hybris: l’illusione dell’eternità, la convinzione che l’ordine europeo potesse vivere senza conflitti, senza difesa, senza dolore.
Ora la realtà ci si è presentata davanti, brutale. Alle nostre porte c’è un orco armato fino ai denti, che ha già infranto confini, calpestato trattati, violato promesse. E noi, smarriti, ci chiediamo se bastino le sanzioni, se basti la diplomazia, se basti l’ombrello americano. Ci scopriamo vulnerabili e dipendenti.
Il problema, dunque, non è soltanto Putin. È la nostra capacità di guardare in faccia il mondo com’è, non come vorremmo che fosse. La storia non è finita, non è mai finita: è un fiume che travolge chi si illude di dominarlo. Lo sapeva Tucidide, che narrava la guerra del Peloponneso come eterna lotta tra potenza e giustizia. Lo sapeva Hegel, per il quale la storia è il teatro dello Spirito, che si realizza attraverso conflitti e tragedie. Noi l’abbiamo dimenticato.
Il destino della hybris è sempre la catastrofe. Toccherà a Putin, prima o poi, pagare il prezzo della sua. Ma attenzione: se non recupereremo la sophrosyne, la misura che salva, l’umiltà che riconosce i limiti, rischiamo di condividere la sua caduta. Perché non c’è peggior errore, per una democrazia, che credersi immortale.
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