Maurizio Zoppi

Scrivo, parlo, respiro... ma non sempre in quest’ordine

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Palermo si è venduta per quattro birre. Forse cinque, con patatine.

Non è un giudizio morale, è una constatazione urbana. Una diagnosi estetica. Una resa.

In pochi anni, quello che era un centro storico fatto di pietra, arte, lentezza e memoria si è trasformato in un corridoio industriale di rumore, fritto e vetri colorati. Una Las Vegas del pane panelle, dove ogni angolo è occupato da un pub, una spritzeria, una stuzzicheria, una promessa urlata di felicità temporanea a 3 euro e cinquanta.

Via Maqueda è diventata la strada dell’orrore.

Non c’è più prospettiva, respiro, armonia. Solo un grottesco collage di tavolini traballanti, insegne urlanti, DJ set per turisti sbronzi, apericene alla bava e cocktail serviti con patatine in sacchetto.

I portali barocchi vengono usati come scenografia per i selfie con l’Aperol Spritz. Le chiese non si sentono più: soffocate dal ghiaccio che frantuma nei bicchieri, dall’olio bollente che frigge il folklore, dal vociare dei butta-dentro travestiti da camerieri, dal caos di un sabato sera che inizia il mercoledì.

Non c’è più contrasto. Solo rumore, bruttezza, disordine.

E non si tratta di nostalgia per un passato immobile: Palermo è sempre stata viva, ma non cieca. Oggi invece sembra aver smarrito ogni senso della misura, dell’estetica, della cura.

Abbiamo trasformato la città più bella del Mediterraneo in un accampamento temporaneo per l’aperitivo.

Abbiamo venduto Palermo per quattro birre. Ma il conto, presto o tardi, lo pagheremo noi.


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