Carmine Mancuso
Ex poliziotto e politico. Figlio di Lenin.
Il 1992 è un anno che segna un confine, una frattura irreversibile nella storia della Repubblica Italiana. L’assassinio dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino segna la fine di un’epoca di speranza nella lotta contro la mafia, ma al tempo stesso getta una luce sinistra sulle pieghe più oscure dello Stato italiano. Falcone e Borsellino non erano solo simboli della giustizia, ma fari di integrità in un sistema che, col passare del tempo, sembrava sempre più lacerato da infiltrazioni e collusioni. Il loro omicidio, con una brutalità mai vista prima, non è solo un atto di terrore da parte di Cosa Nostra, ma anche un colpo devastante alla capacità dello Stato di proteggere i suoi servitori più onesti e coraggiosi.
Eppure, accanto all’evidenza del tritolo, delle bombe, delle morti strazianti, emergono domande che continuano a restare senza risposta. La più inquietante è quella che riguarda la gestione delle indagini e delle informazioni: perché il covo di Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra, non viene perquisito dopo il suo arresto? Perché lo Stato, pur avendo a disposizione dati sensibili e un’intelligence che avrebbe potuto prevenire molte delle tragedie, sembra restare inerte, incapace di agire con la necessaria fermezza?
In quella che molti definiscono una “strategia del terrore”, dietro l’apparente violenza della mafia, si nasconde una trattativa, un gioco di potere oscuro che coinvolge non solo i mafiosi ma anche pezzi deviati dello Stato. La mafia, infatti, non è solo una rete di criminalità violenta, ma diventa sempre più uno strumento nelle mani di chi vuole rinegoziare gli equilibri di potere del Paese, un paese che aveva visto, a partire dagli anni ’80, un progressivo allentamento delle maglie della giustizia e della legalità. Gli omicidi di Falcone e Borsellino non sono atti casuali, ma espressioni di una strategia precisa, finalizzata a mantenere in vita un sistema di potere che, in alcune sue diramazioni, ha trovato sponda anche nei meandri dello Stato.
Le indagini, le testimonianze, e le rivelazioni successive, alcune delle quali ancora avvolte nel mistero, confermano la tesi di una trattativa fra lo Stato e la mafia. È un’idea che, fino a qualche anno fa, sarebbe stata considerata fantapolitica, eppure le evidenze emerse in processi come quello sulla “Trattativa Stato-Mafia” raccontano una verità scomoda: la mafia del Novecento, incarnata da figure come Totò Riina, Bernardo Provenzano, e Matteo Messina Denaro, non era solo una banda di criminali sanguinari. Questi boss erano anche strumenti, pedine all’interno di un gioco più ampio, una sorta di “maschere” per sviare l’attenzione e confondere le acque.
La mafia, da fenomeno criminale locale, diventa così un attore geopolitico, un fattore funzionale a un sistema che cerca di rimanere intatto nonostante le crescenti pressioni interne ed esterne. Un sistema che non solo permette ma, in alcuni casi, incoraggia il crimine organizzato come mezzo di controllo e gestione della società. Questi boss non erano solo degli uomini di potere in grado di infliggere morte e dolore, ma erano anche in grado di manipolare il tessuto politico e istituzionale per assicurarsi che il proprio potere rimanesse intatto. La violenza diventa, in questo scenario, un mezzo per stabilire e mantenere un certo ordine, ma un ordine che risponde a logiche ben diverse da quelle della giustizia.
A lungo, il paese ha faticato a riconoscere che quella “mafia” non era un’entità separata dallo Stato, ma piuttosto una sua parte deviata, un organismo che si nutre di potere, corruzione e collusioni. La mafia si adattava ai cambiamenti storici, alle spinte economiche, alle alleanze politiche, alle transazioni internazionali, per cui la sua struttura diveniva sempre più complessa, meno riconoscibile, quasi invisibile. La mafia del Novecento non è solo quella dei fiumi di sangue e delle stragi, ma è anche quella che si mimetizza dietro leggi, trattative e compromessi. La violenza non è fine a sé stessa: è parte di un disegno più grande, una guerra sotterranea per il controllo di uno Stato che, almeno per un lungo periodo, non ha saputo reagire con la necessaria fermezza.
E oggi, a distanza di decenni, quelle domande non hanno ancora trovato risposte. La storia di Falcone e Borsellino continua a essere una ferita aperta nella memoria collettiva dell’Italia. Ma la loro morte non è stata vana. Le verità che sono emerse, sebbene parziali e talvolta contraddittorie, continuano a mettere in luce l’intreccio di potere che ha segnato un’epoca, e ci obbligano a non dimenticare mai quanto sia fragile la nostra democrazia, quanto sia facile piegarla a interessi oscuri e quanto, troppo spesso, le istituzioni abbiano fallito nel proteggere chi cercava di difenderla.
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