Antonio Perna

Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet

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La Storia, con la maiuscola, non la si scrive soltanto nei palazzi del potere, ma nei silenzi degli sguardi e nei gesti ripetuti della moltitudine. 

La democrazia, quella autentica, non è un regalo, ma una conquista quotidiana, una fatica che si rinnova di fronte all’abisso. 

In questi giorni, mentre le piazze di Kyiv si popolano di cartelli, di proteste, di cori che chiedono rispetto per l’indipendenza delle strutture anti-corruzione, sembra di scorgere nella foschia delle cronache un riflesso antico: l’eco lontana di un’altra guerra, un altro popolo, un altro uomo.

Volodymyr Zelensky e Winston Churchill. 

Due figure distanti nel tempo, simili nella funzione. Due uomini chiamati non tanto a governare, quanto a resistere. Due leader che la Storia ha costretto a indossare l’elmetto prima ancora che la giacca del potere.

Zelensky, come Churchill, non ha chiesto di essere un eroe. E come Churchill, ha trovato la propria grandezza nel momento più buio. “Non voglio un passaggio, datemi armi”, disse il presidente ucraino. Era febbraio 2022. Fu allora, in quella frase secca e senza retorica, che un ex comico divenne il volto di una nazione, e insieme a essa, l’emblema vivente di un’Europa che esiste ancora: imperfetta, fragile, ma irriducibile nella sua dignità.

Churchill aveva il sigaro, le frasi scolpite nella roccia e una consapevolezza tragica del destino: “Vi posso offrire soltanto sangue, fatica, lacrime e sudore.” Zelensky ha le dirette video, il giubbotto militare e una lucidità comunicativa che solo chi ha fatto teatro e conosce la forza del racconto sa usare contro i missili. Entrambi hanno parlato al mondo intero. Non per giustificare, ma per denunciare. Non per blandire, ma per resistere.

Ma c’è un’altra analogia più sottile, e dunque più vera: entrambi sono stati messi alla prova non solo dal nemico esterno, ma dal dissenso interno.

Churchill vinse la guerra e perse le elezioni. Il popolo, riconoscente, gli tolse il potere. La democrazia è anche questo: non premia necessariamente chi ha ragione, ma chi interpreta meglio i bisogni del momento. Zelensky, oggi, è scosso dalle proteste di una cittadinanza che non intende rinunciare alla trasparenza in nome della sicurezza. Non è la sua caduta, è la misura della sua forza. Perché un popolo che protesta, in tempo di guerra, è un popolo che non si è arreso.

Ecco allora che la lezione ucraina, nel pieno di un’invasione brutale, ci restituisce il significato autentico della sovranità: non solo la difesa dei confini, ma l’inalterabilità dei princìpi. Non esiste vera indipendenza se gli organismi di controllo sono manipolati o piegati a logiche opache. Non esiste democrazia senza la fiducia attiva del cittadino.

Zelensky lo sa. E anche quando sbaglia, sa ascoltare. È questo, in fondo, che distingue l’uomo forte dal vero leader: la capacità di correggersi senza piegarsi, di adattarsi senza tradirsi. Il popolo ucraino, così consapevole della sua storia e del suo presente, non vuole né capi eterni né padri-padroni. Vuole interlocutori, interpreti, garanti.

Le perquisizioni recenti negli uffici di NABU e SAPO, le accuse di infiltrazioni russe, il sospetto che la corruzione sia l’altra arma del Cremlino, pongono una sfida titanica: come ripulire un apparato infetto senza distruggere le garanzie che lo rendono democratico? Come difendersi da chi vuole farti saltare dall’interno, senza diventare a tua volta ciò che combatti?

Churchill fronteggiò dilemmi simili, in un’epoca in cui l’Europa era ostaggio di mostri che parlavano la lingua del popolo per ingannarlo. Zelensky si muove su un crinale simile: costretto a combattere l’invasione con le armi, e la disgregazione con la parola.

Le piazze di Kyiv, come quelle di Londra nel 1940, sono il teatro dove la politica si riconcilia con l’etica. Non con i proclami, ma con la fedeltà a un’idea: che la libertà, se non è condivisa, non è nulla. E che la resistenza non si esaurisce nel respingere il nemico, ma deve estendersi nel costruire una società più giusta.

Zelensky, come Churchill, potrà perdere le prossime elezioni. Potrà essere criticato, contestato, perfino sostituito. Ma se l’Ucraina continuerà a esistere come nazione libera, sovrana e democratica, sarà anche per merito suo. E questo, la storia non lo dimenticherà.

Chi oggi si rallegra della sua difficoltà dovrebbe ricordare che anche Churchill fu considerato finito. Eppure, fu proprio lui a dire che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre che si sono sperimentate finora”. Zelensky, nel suo piccolo, sta scrivendo la stessa lezione. Con un accento diverso, ma la stessa lingua: quella dell’Europa che vuole vivere, e vivere libera.

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