Si sa, i vecchi e i bambini si somigliano. Nella tenerezza, nella genuinità, nel candore. Ma si può scommettere che Stefano Vilardo, il patriarca degli scrittori siciliani con i suoi 97 anni compiuti a marzo, abbia avuto sempre quella genuinità e quel tenero candore accentuatisi nel tempo.

Le sue parole, scandite con chiarezza alla maniera di un maestro delle elementari qual è stato, certificano purezza disarmante. E anche in ciò che racconta vi è il timbro di una pulizia morale oggi fuori moda.

Il sentimento d’amicizia, ad esempio, che lo legò a Leonardo Sciascia si manifesta sempre più cristallino man mano s’addentra su alcuni particolari della loro duratura relazione. Quando parla di Nanà, come gli amici chiamavano familiarmente lo scrittore de «Il giorno della civetta», gli occhi di Vilardo si accendono, e invece un velo di tristezza scurisce il suo volto quando legge una poesia dedicata alla moglie scomparsa da tempo.

Stefano Vilardo e Leonardo Sciascia si conobbero ai tempi della loro adolescenza. Provvidenziale fu una bocciatura che costrinse il poeta di Delia a ripetere il primo anno al Magistrale di Caltanissetta. Accanto a Leonardo Sciascia, di lui più grande di un anno, ma iscritto a quell’istituto in ritardo perché costretto ad aiutare lo zio sarto e a impararne il mestiere.

Furono compagni di banco e condivisero molti interessi comuni: il cinema, la letteratura americana (leggevano tutto quello che arrivava in quella periferia delle periferie che era la Sicilia del centro d’allora), ma anche i giochi, gli scherzi e naturalmente le ragazze. La loro amicizia, nata nei banchi della scuola, dopo non venne meno e anzi si rinsaldò.

I due si scrivono alla Facoltà di Lettere dell’Università di Messina. Pochi esami con risultati non brillanti, soprattutto per Sciascia che, «seppure di non comune intelligenza, nelle prove orali era bloccato da una straordinaria timidezza» secondo quanto confida Vilardo, che aggiunge: « A scuola lo salvavano i temi».

Già l’italiano, che « non è l’italiano: è il ragionare», come si legge nel suo ultimo romanzo «Una storia semplice». Poi, per entrambi l’insegnamento. Maestri di scuola elementare tutti e due, ma con una vocazione diversa: modesta in Sciascia, spiccata in Vilardo.

«Ancora vecchi alunni mi vengono a trovare» rivela orgoglioso il maestro di Delia, poi di Caltanissetta, infine di Palermo. Spostamenti di sede e di residenza per lui e la sua famiglia determinati dalla volontà di seguire l’eterno compagno di banco.

«Io aveva bisogno di lui, lui aveva bisogno di me» confessa Vilardo. Erano così fraternamente amici da scegliersi reciprocamente come testimoni delle proprie nozze. «Il pomeriggio a Palermo prendevo l’auto, raggiungevo Nanà e gli altri amici e giravamo per gallerie d’arte» ricorda Vilardo, che rimpiange quei tempi. E che riferisce un curioso aneddoto: «Una volta, nel centro di Palermo, una ragazza chiese a Nanà se fosse il famoso scrittore. Lui negò imperturbabile, non per capriccio o scontrosità ma per l’assoluta refrattarietà alla notorietà».

Tanto amici e così diversi, Sciascia e Vilardo. Il primo di sinistra, il secondo democristiano (ma quando scoprì certi sistemi di finanziamento dei partiti si dimise subito da segretario della sezione scudocrociata di Delia); il primo agnostico, il secondo cattolico.

E se lo scrittore di Racalmuto dicono che in prossimità della morte si sia avvicinato alla fede, paradosso su paradosso per Vilardo più passano gli anni più vacillano le certezze religiose. Perciò ripete con immacolata memoria versi di Leopardi in cui si riflettono un pessimismo che prima non condivideva con l’amico.

Vilardo è stanco, forse anche di scrivere. Sebbene le sue ultime fatiche siano recenti: i racconti de «Le nevi di una volta» pubblicati tre anni fa da Thule, la casa editrice dell’amico Tommaso Romano, « Garibaldi e il cavaliere», un romanzo testamento dai richiami autobiografici in cui l’indignazione civile è temperata dall’ironia, edito due anni fa da Le farfalle del poeta mecenate Angelo Scandurra.

E l’anno scorso un editore di nicchia, De Piante, ha dato alle stampe una plaquette contenente sei lettere a lui scritte da Sciascia tra il ’40 e il ’57 intitolata con una sua frase che ne rispecchia l’amara visione della vita, «Nessuno è felice: tranne i prosperosi imbecilli».

Chissà se Vilardo, lo scrittore e il poeta dall’eterno candore, ci regalerà altro. Non lo facesse, un posto nell’olimpo siciliano di chi scrive gli rimarrebbe sempre: la sua raccolta di poesie « Tutti dicono Germania Germania » (Garzanti 1975, Sellerio 2007) è una pietra miliare nella letteratura sulle migrazioni.

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