Si favoleggia – ma non è una favola – che un giudice, Rosario Livatino, il giudice ragazzino ammazzato sulla strada statale 640 che collega Caltanissetta ad Agrigento, ogni anno, il 31 dicembre, seduto alla sua scrivania nella casa dei genitori a Canicattì, prendesse in mano la sua agenda e facesse un bilancio del lavoro svolto durante l’anno che entro qualche ora si sarebbe chiuso. E spesso, se non sempre, in calce a quell’agenda scrivesse: “Nessun sospeso”.

Nessun procedimento aperto, nessuna indagine pendente. Livatino era un uomo straordinario, ovvero fuori dall’ordinario, un sant’uomo lo definisce qualcuno e a “suo carico” è in corso un processo di beatificazione della Chiesa Cattolica che lo ha già inserito nei ranghi dei “servi di Dio”. Una vita interamente ed esclusivamente dedicata all’esercizio della giustizia.

Quel “nessun sospeso”, però, merita una riflessione. Fra il totale abbattimento degli arretrati di un singolo magistrato e i 2949 giorni calcolati in media per arrivare all’ultimo grado di una sentenza in Cassazione per un processo civile (vale a dire otto anni per primo grado, appello e Cassazione), i 986 della Giustizia amministrativa (che ha solo due gradi di giudizio) e i 1377 di un processo penale, beh c’è un mondo in mezzo. E c’è la vita vera di tutte le persone coinvolte, loro malgrado, nei gangli della giustizia italiana. A cui si presentano in partenza e fino a prova contraria da presunti colpevoli. Presunti anche se sono effettivamente omicidi, corruttori, taglieggiatori ma anche “semplici” contendenti di una vertenza di tipo amministrativo o contabile, che abbiano acceso una lite condominiale finita in vertenza giudiziaria, insomma.

I dati, per dovere di cronaca, sono del rapporto European commision for the efficiency of Justice dell’ottobre 2018 commissionato dal Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale (distinta dall’Unione europea) che si occupa di tutela dei diritti umani. E vi ho risparmiato il confronto con gli altri paesi europei.

A che serve tutto questo? A interrogarci su cosa accadrà a partire dall’1 gennaio 2020, quando entrerà in vigore la riforma della prescrizione, un emendamento inserito nella legge anticorruzione approvata in via definitiva dalla Camera nel dicembre de 2018.

Se ne vanta il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede che ieri su La Stampa ribadiva: “E’ legge ed entrerà in vigore con l’anno prossimo”. Ma cosa prevede la riforma della prescrizione? Che il decorso dei termini di prescrizione dei reati si interrompa dopo la sentenza di primo grado di giudizio, sia essa di condanna o di assoluzione. Volete una sintesi? Fine processo mai. Dopo il primo grado, fossimo – tutti perché a tutti può capitare di essere imputati in un procedimento giudiziario – assolti o condannati, saremmo sottoposti all’attesa eterna di quegli eterni tempi della giustizia di cui sopra.

Ben sta ai criminali è la vulgata comune. Ben gli sta. Hanno commesso un crimine. Lo paghino primo o poi. Fosse così semplice. Riguardasse sempre qualcun altro, riguardasse sempre e solo i colpevoli. Forse non tutti sanno che il 21,9% (dati Eurispes) degli imputati in un procedimento, risultano alla fine assolti. E la stessa percentuale, decimale più, decimale meno, riguarda la prescrizione del reato.

Allora caro ministro Bonafede, il tema è la prescrizione o i tempi della giustizia? Il divario fra il “nessun sospeso” di Livatino o gli otto anni di media per raggiungere una sentenza definitiva nella giustizia civile o i quasi quattro per quella penale. Si badi: da questi calcoli sono esclusi quelli delle indagini preliminari che, in una vasta gamma che contempla la gravità dei reati, possono arrivare con le varie proroghe a due anni, da cui sono esclusi i reati più gravi (rapine, omicidi, fatti di mafia) in cui le indagini preliminari possono dilatarsi ulteriormente.

Che vorrà dire tutto questo? Che salvaguardare la prescrizione equivale a un “liberi tutti” e chi se ne frega? No, non banalizziamo. Il problema è che in quegli anni di attesa di un giudizio definitivo è compromessa la vita reale di un imputato. Che sia effettivamente colpevole o che non lo sia. Che sia accusato – accusato non colpevole – dei peggiori crimini o di aver fatto cadere la nonnina dirimpettaia dalle scale anche se è stato un incidente di cui si sia pienamente consapevoli e magari ci si senta moralmente responsabili. Ma può accadere. Svestitevi dei panni dei giustizialisti perché di finire indagati e imputati è un passo. Per tutti. Non solo per i criminali che volete vedere marcire in galera. E da innocente, sono certa, che nessuno voglia risultare assolto per la prescrizione del reato. Ma da innocente, sono altrettanto certa, che tutti abbiamo diritto ad ottenere un giudizio in tempi umani. In tempi certi. In tempi onorevoli della dignità di ogni imputato.

Allora, la riforma della prescrizione entrerà in vigore dall’1 gennaio prossimo ed è l’ennesimo tema che fa traballare la fragilissima maggioranza di governo con i 5 Stelle convinti che sia la soluzione ai mali della società corrotta italiana, il Pd, Italia Viva e via cantando che invece considerano l’annullamento dei tempi della prescrizione un’aberrazione. Ma se strada ad una mediazione c’è, fidiamoci ancora una volta della parole del ministro Bonafede. Sempre dall’intervista di ieri su La Stampa precisa: “Siccome i primi effetti processuali (della riforma della prescrizione, ndr) si avranno nel 2024, c’è il tempo per una riforma del processo penale che accorci i tempi”. Ecco, mettetevi a lavorare. Seriamente. A favore di tutti gli italiani che ricevono una raccomandata in busta verde e che hanno diritto ad avere certezze sul proprio futuro.

Cari onorevoli e senatori date un’occhiata alla cassetta della posta, può capitare anche a voi. Con la differenza che voi possiate sempre farvi scudo dell’immunità parlamentare.
Poi ne riparliamo.

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