Giuseppe Conte, il presidente del consiglio incaricato questa mattina dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ci ha impiegato un quarto d’ora in più rispetto all’ora abbondante di colloquio col Capo dello Stato per perfezionare il suo discorso e presentarsi ai giornalisti e spiegare come e perché ha scelto di accettare “con riserva” (come prevede la formula protocollare) di guidare il prossimo futuribile governo della XVIII legislatura in corso.

Sciogliendo – ha detto – non pochi dubbi riguardo il cambio di maggioranza che dovrebbe sostenerlo.
Dagli torto. Perché ora Conte, che per quattordici mesi, ha brillato per il suo incredibile silenzio tranne poi brillare nel suo discorso di 40 minuti al Senato, lo scorso 20 agosto, quando ha rivolto al suo vicepremier Matteo Salvini tutti i vaffa accumulati nell’anno di governo passato insieme, pare non abbia più alcuna intenzione di restare umbratile e mediocre. Di interpretare il ruolo del passacarte notarile. E “prendersi” a pieno titolo, invece, quel ruolo di “avvocato del popolo” che aveva evocato e avocato per sé all’atto del suo primo insediamento.

Bisogna riconoscere a Conte che in questi mesi ha maturato esperienza. Lo ha fatto certamente inghiottendo rospi per inesperienza e obbligo di mediazione, accettando la supervisione stretta dell’occhio del Grande Fratello vivente accanto a lui, Rocco Casalino, sostenendo il peso dei dissidi che maturavano attorno a lui e nel frattempo affrancandosi.

Ad esempio smentendo la linea ufficiale del Movimento 5 Stelle contro il Tav o la Tav. Oppure mostrando sempre più apertamente il fastidio sulle politiche dei porti chiusi dell’ex (fra poco) ministro degli Interni, Matteo Salvini. E tanto altro ancora sarà maturato che non sappiamo nel chiuso delle stanze dei bottoni.

Oggi il sacro rifiuto dello stigma – cucitogli addosso dalla stampa e dall’odio dei social – è chiamato a esplicitarsi senza se e senza ma. Soprattutto in questa delicatissima fase di formazione di un programma di governo e di composizione della squadra che dovrà accompagnarlo nei prossimi anni della legislatura. Anche se qualcuno giura che non durerà. Non fino alla fine, nel 2023.

Se durasse, anche se durasse un po’ più in là della scadenza temporale (sei mesi, un anno al massimo) che gli osservatori, malevoli o meno, assegnano al patto fra grillini e democratici, sarà stato merito di Giuseppe Conte.
Che in nome della novità, però, può sacrificare solo sé stesso. Che vuol dire? Che per placare l’odio che anima le parti opposte, può – deve forse – trovare la strada unica e possibile di apparecchiare un tavolo di gabinetto che porti in dote nomi, volti, idee, proposte, davvero nuovi. Tutti nuovi. Tutti tranne lui. Non uomini e donne di partito. Ma di area. Non riconoscibili con il vecchio establishment. Che sia del Pd o dei 5 Stelle. Faticherà – se questo è il senso della novità che annuncia – su entrambi gli schieramenti: dovrà convincere Di Maio a fare un passo indietro e non pretendere, come sembra, la poltrona di vice. E accettare un “declassamento” del suo ruolo all’interno del governo. Almeno in questa fase prima che lo stesso Conte possa maturare altra esperienza e prestigio e chissà scalare posizioni anche all’interno dei 5 Stelle fino alla postazione di comando. Come d’altronde sembra prefigurare per lui il titolo di “elevato” che gli ha appena attribuito il Deus ex machina, Beppe Grillo.

Insomma, un ruolo centrale. E anche pericoloso, va detto. Perché se i grillini, quelli della prima ora, dovessero capire il rischio effettivo potrebbero chiudersi a riccio. E far saltare il banco. Quando? Anche subito con i risultati della consultazione digitale sulla piattaforma Rousseau che è atteso entro la prossima settimana. E in queste ore, i tempi sembrano coincidere con l’ipotesi di presentazione della lista dei ministri al presidente Mattarella che ragionevolmente non arriverà prima della settimana che ricomincia lunedì 2 settembre.

Dall’altro lato, in casa Dem, Conte – da quello che emerge dai rumors – ha già intavolato un dialogo personale con il segretario Zingaretti. Senza mediazioni. Il che dovrebbe impensierire sia Di Maio che i maggiorenti democratici. Perché Zinga non ha certo voglia di rompersi il collo dietro questo patto programmatico. E accogliere quindi le “novità” annunciate da Conte come una manna dal cielo.

Le consultazioni di Conte sono cominciate. Sarà per lui un week end faticosissimo. E anche per noi. Favorevoli. Contrari. Perplessi. Indignati. Scettici. Non è ancora finita.

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