Se l’Italia fosse una persona si potrebbe dire che sta invecchiando male. Gli ultra sessantacinquenni rappresentano ormai quasi un quarto della popolazione, i nuovi nati sono scesi l’anno scorso per la prima volta sotto i 400 mila e calano nel primo quadrimestre di quest’anno dell’1,1%. Un fenomeno irreversibile nel breve termine perché, spiega l’ISTAT nel Rapporto Annuale 2023, è dovuto per l’80% alla diminuzione delle donne tra i 15 e i 49 anni. I bambini, insomma, non nascono soprattutto perché trent’anni fa non sono nati i loro genitori. Questo il quadro ‘desolante’ del nostro Paese, come analizzato dal Corriere della Sera.

Proiezioni future e squilibri lavorativi

Proiettati in avanti questi dati ci dicono che il numero dei potenziali lavoratori crollerà in futuro, con squilibri che sarà difficile affrontare: “Tra il 2021 e il 2050, le nostre previsioni più recenti stimano una riduzione della popolazione in Italia di quasi 5 milioni”, ha spiegato il presidente dell’ISTAT Francesco Maria Chelli, aggiungendo che entro il 2041 i giovani fino ai 24 anni si ridurranno di circa 2,5 milioni e gli italiani tra i 25 e i 64 anni di 5,3 milioni, con cali anche maggiori nel Mezzogiorno e nelle aree interne.

Un futuro non necessariamente segnato dal declino

Siamo condannati a un declino irreversibile? Naturalmente no: l’Italia è un Paese che ha sorpreso l’anno scorso per le capacità di ripresa, e le nostre imprese manifatturiere medio-grandi sono più produttive di quelle francesi, mentre le piccole sono più produttive di quelle tedesche. Ma la condizione obbligatoria per crescere e per trovare un equilibrio è includere subito nel mercato del lavoro le principali categorie di esclusi: i giovani e le madri.

Disuguaglianze di genere e inclusione lavorativa

I numeri parlano chiaro: il tasso di occupazione delle 25-49enni è l’80,7% per le donne che vivono da sole, il 74,9% per quelle che vivono in coppia senza figli, e il 58,3% per le madri. E il tasso di occupazione medio, che ha finalmente superato la soglia del 60%, è il risultato di un tasso maschile del 69,2% e di uno femminile del 51,1%, di quasi 14 punti percentuali inferiore alla media europea.

La sfida della disoccupazione giovanile

Ancora più grave la questione giovanile. Quasi la metà dei giovani tra i 18 e i 34 anni vive in condizioni di deprivazione sotto il profilo sociale, o dell’istruzione, della salute, del lavoro o del benessere in generale. Sono 1.670.000 i Neet, i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano. Il tasso italiano di occupazione giovanile è inferiore di oltre 15 punti alla media UE. Persino nella classe di età 30-34 anni, per la quale si possono considerare conclusi anche i percorsi di studi post-laurea, il 12,1% dichiara di non aver mai lavorato.

Bassi salari e produttività del lavoro

E quando i giovani trovano un’occupazione, spesso si tratta di un lavoro povero, in un Paese in cui già si guadagna poco: le retribuzioni italiane sono inferiori del 12% alla media UE (oltre 3.700 euro lordi annui in meno). E mentre in Francia, Spagna e soprattutto in Germania i lavoratori, soprattutto nel settore manifatturiero, riescono a spuntare aumenti anche superiori alla produttività, in Italia ci si colloca al di sotto di una produttività che è mediamente più bassa di quella degli altri.

La necessità di offrire opportunità ai giovani

Un Paese che non offre opportunità ai giovani non permette di affrancarsi dalle condizioni svantaggiate di partenza: l’ISTAT denuncia la “trappola della povertà”, per cui quasi un terzo degli adulti a rischio di povertà proviene da famiglie che versavano in una cattiva condizione finanziaria. Eppure dare un’opportunità lavorativa a donne e giovani potrebbe attenuare di molto gli effetti negativi del declino demografico. Raggiungere i tassi di occupazione attuali dell’UE27, calcola l’ISTAT, ci permetterebbe nel 2041 di ridurre di oltre due terzi (da 3,6 a 1,1 milioni) la perdita di occupazione che si avrebbe, a tassi invariati, per via della riduzione delle nascite.

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