Quel pasticciaccio brutto della vendita del Castello di Schisò. Ci occupiamo diq uesto nella seconda puntata della nostra rubrica Articolo 14, beni culturali a statuto speciale lanciata subito prima delle elezioni regionali. Vittorio Sgarbi aveva esordito in Sicilia col progetto di ricostruzione del Tempio G di Selinunte, e non sono mancate le polemiche, poi qualcuno ha pensato che, invece, il corso del nuovo assessore siciliano ai Beni Culturali e Identità Siciliana dovesse aprirsi all’insegna dell’acquisizione di un bene al patrimonio regionale.
A un patrimonio di serie A: il castello, infatti, andrebbe al Parco archeologico a cui è adiacente, quello di Giardini Naxos, al quarto posto nella classifica de «Il Giornale dell’Arte» dei complessi archeologici più visitati in Italia nel 2016, con 748.583 presenze, dopo Colosseo, Pompei e Arena di Verona, e primo in Sicilia, davanti alla Valle dei Templi. Fin qui tutto bene, anzi benissimo: nell’interesse pubblico si vuole evitare che il palazzo di pregio monumentale (XVII sec.), con i suoi opificio, magazzino e giardini, oggetto di una procedura immobiliare esecutiva, il 20 dicembre finisca in mani private, per farne magari l’ennesimo albergo in riva al mare. Con l’acquisizione pubblica, invece, lo si destinerebbe ad ospitare in parte il museo Archeologico oggi in spazi angusti, in parte i depositi in baracche prefabbricate in lamiera, in parte ancora gli uffici amministrativi attualmente dislocati in tre plessi. I soldi, una volta tanto, non mancano, li mette il Parco, che è dotato di autonomia finanziaria. Quale migliore investimento nell’interesse pubblico?
La faccenda inizia, però, a prendere una piega diversa quando l’operazione, in realtà ereditata dal precedente assessore al ramo, Aurora Notarianni, e condotta fino ad allora con un profilo di rigorosa riservatezza, è stata, invece, ampiamente «sponsorizzata» attraverso la stampa («La Repubblica», «Gazzetta del Sud», etc.) e sui social. Il messaggio è: inizia un nuovo corso che si riallaccia idealmente a quello in cui si registrò l’ultima acquisizione all’asta da parte della Regione, con l’aggiudicazione da Christie’s a Londra nel 2003 di un’opera di Antonello da Messina, segnalata dallo stesso Sgarbi all’allora assessore ai BBCC Fabio Granata. Così oggi, a parti invertite è proprio quest’ultimo a suggerire l’operazione al critico d’arte. «Ho segnalato a Sgarbi, scrive Granata su “Facebook”, la straordinaria opportunità di determinare l’acquisizione al Patrimonio della Regione e del Parco Archeologico del prestigioso Castello di Schisò, conosciuto come Palazzo Paladino, per meno di due milioni e mezzo di euro e attraverso i fondi del Parco accumulati grazie alla sua autonomia». E va oltre. Ringrazia, sempre pubblicamente, la direttrice del parco Vera Greco, malgrado questa, prudentemente come richiesto a un amministratore pubblico, avesse osservato assoluta riservatezza. E pubblica, sempre sul social, un documento con l’intestazione del Parco con oggetto proprio la richiesta da parte della direzione di «autorizzazione al procedimento di acquisto come bene immobile del Parco». Documento singolarmente indirizzato non solo all’assessore Sgarbi, ma anche al «Preg.mo On.le Fabio Granata», non è chiaro in quale ruolo ufficiale, dato che non è precisato.
Benché l’ex assessore sia convinto di essere nel giusto («si inizia bene», «nessuno in buona fede può non condividere», commenta sempre sul social), è evidente che aver manifestato così platealmente la concreta intenzione d’acquisizione del Castello da parte della Regione rappresenti un’anomalia, che potrebbe interferire con la procedura di vendita all’asta. Della partecipazione a quella per il «Salvator mundi» di Leonardo del principe saudita per destinarlo al Louvre Abu Dhabi ne abbiamo saputo ad aggiudicazione avvenuta, non prima. Di questo avviso sono i proprietari del Castello, Sebastiano e Gaetano Paladino, che dichiarano che quanto avvenuto ha «irreparabilmente influenzato il procedimento di formazione del giusto prezzo e condizionato il regolare svolgimento dell’asta».
Precedentemente a questa presa di posizione, il 10 dicembre scorso, durante la presentazione della sua mostra al Castello Ursino, avevamo chiesto a Sgarbi il perché di questa scelta di partecipare all’asta, di cui non è possibile prevedere le dinamiche e col rischio di trovarsi coinvolti in un incontrollabile gioco al rialzo, e di riservarsi, invece, come seconda opzione quella di esercitare il diritto di prelazione, essendo l’immobile vincolato come bene architettonico e monumentale. Era evidente che la faccenda fosse stata posta all’assessore con una certa superficialità.
Alla quale Sgarbi ha risposto immediatamente ristabilendo l’ordine delle cose: «non autorizzerò il rappresentante del Parco a partecipare all’asta, firmerò solo per la prelazione», ci aveva dichiarato. Così è stato: dalla dichiarazione della prima ora sull’intenzione di acquisto o prelazione si è passati alla sola prelazione, con l’ulteriore precisazione che «a risultato raggiunto l’assessore valuterà se esercitare il diritto di prelazione entro i limiti di una disponibilità economica già stabilità. I proprietari del castello non avranno quindi alcuno ostacolo al regolare svolgimento dell’asta» (Leggi qui).
Il perché di due operazioni apparentemente incompatibili lo siamo andati a chiedere all’ex assessore Notarianni, che nonostante non ricopra più ruoli istituzionali aveva scelto di non intervenire per evitare un’ulteriore pubblicizzazione contro l’interesse pubblico. Ci spiega così la legittimità procedurale e l’opportunità economica valutata: «ho ritenuto più opportuno che si prevedesse di intervenire (a fari spenti, ndr) alla prima asta, con una base di 2 milioni e 152 mila e la possibilità di fare un’offerta ribassata del 25%, piuttosto che alla seconda, che, partendo da una base ulteriormente ribassata rischia di intercettare l’interesse dei privati con un gioco al rialzo, al quale la Regione non potrebbe stare dietro, finendo poi per esercitare la prelazione ad un prezzo elevato». Ma le ipotesi, dicevamo, possono anche essere altre, non ultima quella che l’asta vada del tutto deserta e il bene si deprezzi ulteriormente, a tutto vantaggio dell’interesse pubblico di acquisizione.
Insomma, una cosa è riaccendere una vecchia querelle tra specialisti sull’anastilosi del tempio selinuntino, altra rischiare di interferire in un’iniziativa d’indiscusso vantaggio pubblico per semplice imprudenza di chi non aveva alcun ruolo ufficiale nella faccenda.
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