Domenico Squillace ha 64 anni. E’ nato a Crotone, laureato in Filosofia, docente di italiano e storia che ha insegnato per 26 anni prima a Milano e poi a Verbania. Dall’1 settembre del 2013 è dirigente scolastico – preside per intendersi – del liceo scientifico Alessandro Volta di Milano. Il 25 febbraio scorso, il professore Squillace, mentre nel capoluogo lombardo deflagrava il virus della paura e del sospetto, relegando la civilissima Milano – e con lei l’intera regione insieme al Veneto – al ruolo di “appestati”, ha scritto una lettera ai suoi alunni, forzati a un ritiro obbligatorio dalle lezioni. Scrive: “Non sta a me valutare l’opportunità del provvedimento, non sono un esperto né fingo di esserlo, rispetto e mi fido delle autorità e ne osservo scrupolosamente le indicazioni, quello che voglio però dirvi è di mantenere il sangue freddo, di non lasciarvi trascinare dal delirio collettivo, di continuare – con le dovute precauzioni – a fare una vita normale”. Già questo passaggio della sua lettera aperta è un manuale di educazione civica. Le regole, anche quando non possiamo comprenderne fino in fondo le motivazioni, in una comunità che per vivere in armonia e nel rispetto vicendevole delle altrui libertà e diritti, vanno rispettate.

Ma il professore di Crotone fa di più e consiglia: “Approfittate di queste giornate per fare delle passeggiate, per leggere un buon libro, non c’è alcun motivo – se state bene – di restare chiusi in casa. Non c’è alcun motivo per prendere d’assalto i supermercati e le farmacie, le mascherine lasciatele a chi è malato, servono solo a loro. La velocità con cui una malattia può spostarsi da un capo all’altro del mondo è figlia del nostro tempo, non esistono muri che le possano fermare, secoli fa si spostavano ugualmente, solo un po’ più lentamente. Uno dei rischi più grandi in vicende del genere, ce lo insegnano Manzoni (descrivendo la peste a Milano ne I promessi sposi, ndr) e forse ancor più Boccaccio (che descrive ancora una volta la peste ma a Firenze nel Decameron, ndr), è l’avvelenamento della vita sociale, dei rapporti umani, l’imbarbarimento del vivere civile”.

Un invito a non cedere alle lusinghe facili della diffidenza e dell’intolleranza. Di cui al professore Squillace andrebbe riconosciuto un plauso enorme specie in un momento in cui i politici pensano al contrario di mostrare di sé l’immagine plastica della divisione, dello scontro, della polemica creata ad arte per basse questioni di sopravvivenza partitica, di contrapposizione interessata. Per non parlare poi di quei governatori – al Nord – che per la prima volta – loro – si confrontano con la discriminazione, con gli effetti deleteri del pregiudizio. E fuori di testa, sparano idiozie a favore di telecamere come quella sui “topi vivi”.

Ha ragione Fausto Bertinotti che sul Riformista di ieri ci ha definiti, citando una formula usata da Giuseppe De Rita che riprende Vincenzo Gioberti, “un popolo di sabbia”. Ha scritto Bertinotti: “ Continuiamo a considerarci popolo ma siamo solo granelli di sabbia”… “Popolo fa pensare che si tratti di un processo unitario; la sabbia fa pensare ai granelli che vivono l’uno accanto all’altro in un’assoluta solitudine”.

Da dove ripartire allora? Dall’esempio splendido del professore Squillace, nato a Crotone 64 anni fa. E dalla enorme, straordinaria generosità di Palermo. Sì, Palermo. Che ha dato una lezione a tutta l’Italia se l’Italia fosse in grado di decifrarla, interpretarla e metterla in pratica su scala nazionale. La lezione è la festa a sorpresa organizzata dai medici e dagli infermieri dell’ospedale Cervello per il compleanno della turista arrivata da Bergamo, ricoverata come primo caso di contagio in Sicilia. La lezione è quella dei commercianti e degli esercenti che nello stesso momento ai compagni di viaggio della turista, in quarantena in albergo, offrono gli aperitivi e inviano dolci e altre prelibatezze per alleviare il peso di un isolamento forzato che li rende “colpevoli” del rischio collettivo. Per alleviare il peso della solitudine dei granelli di sabbia. Ecco questa è la lezione di un popolo che può essere comunità.

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