Di quando mi diagnosticarono il cancro al seno, circa un anno fa, due cose mi ricordo: la prima è che mi sentii una ragazzina, la seconda è che non ebbi paura.
Accadde una sera per caso, il giorno dopo ero già in quella stanzetta semibuia dove ti fanno l’ecografia ed ebbi subito la sensazione che la dottoressa, avesse intercettato col sondino qualcosa di non bello. Mi ricordo le sue parole mentre trattenevo il respiro ma allo stesso tempo mi sentivo calmissima:”Eccolo, è un nodulo e credo sia maligno perché ha un colore grigio scuro…”.

Quello che percepii fu un silenzio pieno di lacrime mai uscite, quelle di mia madre e mi preoccupai – ve lo giuro – solo per lei, io come ho già detto mi sentivo tranquilla senza capire il perché.
Dopo un po’ la mammografia confermò la stessa diagnosi, il chirurgo che mi avrebbe dovuto operare idem, e quando, dopo giorni aprii la busta che conteneva il verdetto in seguito all’ago aspirato, lessi per la prima volta la parola carcinoma.

Neanche lì ebbi paura, anzi mi misi a ridere, chiesi a mio fratello per scherzo :”Carcinoma vuol dire che ho il cancro?”.

“Si” rispose lui, e scoppiammo a ridere, non so il perché.

In effetti ero preoccupata solo per mia madre (come ho già detto) che al contrario si era chiusa in una strana forma di silenzio e io con la mia proverbiale ironia tentai di strapparle una risata, lo feci con una battuta veramente idiota, ma sapevo bene che lei aveva contraccambiato solo per farmi contenta.

A distanza di ventiquattro ore però (questo non posso negarlo), mentre camminavo per strada, mi si pietrificarono le gambe, cominciai a sudare freddo e dovetti sedermi per terra, su una specie di marciapiede malconcio perché mi girò la testa. Forse avevo metabolizzato di avere un cancro ‘scemo’, quello classificato tra i più guaribili, anche se non sapevo altro.

Il mio era di un centimetro e rotti e i medici del Policlinico (struttura dieci e lode) mi avevano assicurato che la percentuale di guarigione era altissima, così mi affidai al mio angelo custode preferito: mio padre, che non c’è più da oltre cinque anni. Lui mi fece percepire che tutto sarebbe andato bene, che dovevo avere molta pazienza e credo che quella sia stata l’unica volta che mi feci un pianto.

Ad ogni modo dovevo alzarmi da quel gradino dove mi sentii piccola come una formica sotto la coltre di un cielo azzurro immenso, ci provai ma le gambe erano diventate di legno, così le presi a pugni, pensate la gente che intanto assisteva alla scena.

I pugni non servirono a niente, così mi trascinai in auto sorreggendomi nella passamaneria di un muretto dissestato e riuscii ad entrare nella mia vecchia yaris e ad arrivare fino in palestra dove mi alleno da anni.

Un medico a cui faccio molto affidamento mi spiegò che la causa di questa pietrificazione era la forte tensione che aveva paralizzato il mio corpo, così salii sul tappeto da corsa e lo misi al massimo, cominciai a correre così forte, ma così forte che quando scesi le gambe erano diventate quasi normali e io mi ero dimenticata di essere momentaneamente malata.

Lo sport, gli angeli custodi che intanto si aggiungevano al lungo stuolo e la mia totale strafottenza mi fecero arrivare al giorno dell’intervento allegra e in pace con me stessa: avevo perso molti chili mangiando di tutto, persino barattoli di Nutella e come ho già detto, dentro mi sentivo quindici anni.

Il Policlinico mi sembrò un albergo pluristellato, io divenni una specie di giullare, andavo avanti e indietro con un pigiama divertente e un paio di stivali. E poi mi ricordo altre due cose: feci ridere per giorni le mie compagne di stanza e l’operazione, anche quella fu una cosa da ridere.

Dopo un paio di ore ero già fuori che parlavo col mondo. A distanza di tre o quattro giorni mi dimisero e tornai in palestra e fuori per strada a correre, coi laccetti di nylon cuciti nella cicatrice che mi penzolavano da una parte e un cerottone che si intravedeva dalla canotta. Mi venne anche voglia di nuotare e mentre il filo di nylon si attorcigliava mi immersi a mare e nuotai per non so quanto.

L’esame istologico tutto sommato diede un esito non proprio negativo anche se avevo una piccola metastasi che venne rimossa insieme al mostro, poi – ma questo lo sapete già – ci sono un mare di esami piuttosto invasivi che devi sostenere per cinque anni -, così passai quasi tutta l’estate scorsa da un centro di medicina nucleare all’altro mentre la gente progettava viaggi, stava imbalsamata sotto il sole e io ero contenta per loro perché ‘in loro’ vedevo tanta vita, così tanta che avrebbero potuto contagiarmi.

Ma dopo la rimozione di un cancro scemo (chiamo così quello al seno perché è veramente scemo quando ti viene con questi parametri), subentrano comunque altri fattori, non ultimo quello psicologico.

Ti rendi conto che una parte intima del tuo corpo è stata violata e poi ti tolgono le mestruazioni di botto con qualche iniezione. La gente intanto si fa i c… suoi, ti dice anche “futtitinni”, sì, te lo dice alla francese, ma loro non saranno mai te, ecco spiegato il francesismo.

Oltre a toglierti il ciclo mestruale (se ti è venuto quello scemo) ti devi sottoporre alla radioterapia, che secondo me non serve a niente, ma il protocollo nazionale prevede quest’ennesima scocciatura e così per un mese vai e vieni da una clinica, ti becchi per un minuto e mezzo delle radiazioni e tutto finisce lì.

Adesso voglio aggiungere una cosa che reputo fondamentale: c’è gente che affronta prove del genere chiudendosi in sé stessa e non riuscendo a sciogliere quella paralisi che ti prende alle gambe.

Ognuno reagisce in modo diverso, la cosa importante per me fu invece quella di parlare con il mondo e, lo ammetto, di cancellare dalla rubrica telefonica quelli che avevano saputo e mi avevano trattato come una moribonda. Cancellai anche i curiosi e tutti quelli che mi avevano promesso che sarebbero venuti a farmi visita, macché era estate e loro erano in vacanza… Queste anime sono vergognosamente false però mi piace l’idea di continuare a salutarle ancora perché non ce l’ho con nessuno, avercela con qualcuno vuol dire disseminare energie che invece ti possono tornare utili, soprattutto quando hai subito un’esperienza del genere.

La cosa certa è che bisogna fare prevenzione, perché se io o chi per me non ce ne fossimo accorti non so come sarebbe finita.

Non so quante donne leggeranno questo articolo. Vorrei dire – abbracciandomele tutte – alle donne come me di correre a gambe levate almeno una volta l’anno in un centro di diagnostica e di sottoporsi ad una mammografia.