Dopo alcuni giorni di commemorazioni in giro per Palermo ieri al Teatro Golden è stato fatto il punto sulla lotta alla mafia e sulla volontà politica di perseguire cosa nostra. E’ emersa una realtà sconfortante. La narrazione ufficiale della lotta alla mafia stride con la realtà e con quanti lavorano ogni giorno confrontandosi sul campo con pochi mezzi, strumenti e la volontà della politica di convivere più che sconfiggere le mafie.

Roberto Scarpinato e la Falconeide ufficiale sedativa

 

         Roberto Scarpinato ex procuratore generale di Palermo 

“E’ un trentennale triste basato sulla rimozione, sulla restaurazione e sulla normalizzazione. La Falconeide ufficiale sedativa si basa su storie false. E’ falso dire che la mafia è sconfitta. La camorra, la mafia pugliese continuano a sparare e ad uccidere; mafia e ‘ndrangheta non hanno bisogno di uccidere perché hanno tutte le porte aperte. Il racconto ufficiale serve a consentire il disarmo da parte dello Stato di leggi importanti nella lotta alla mafia come l’ergastolo ostativo e il 41bis”.

Lo ha detto l’ex procuratore generale Roberto Scarpinato nel corso di un convegno organizzato al teatro Golden di Palermo dalla rivista Antimafia 2000 dal titolo “Uccisi, traditi, dimenticati”.

“Siamo passati da presidenti della Regione come Piersanti Mattarella che è stato ucciso, a quello odierno che ritiene opportuno potere confrontarsi con uomini politici condannati per mafia come Marcello Dell’Utri”, ha aggiunto Scarpinato. Il dibattito è stato aperto dagli interventi di magistrati come Luigi Patronaggio e Alfredo Morvillo. “Dobbiamo prendere le distanze dalla retorica ufficiale. Da quando sono in pensione – ha aggiunto l’ex magistrato – ho riacquistato più libertà. Mi sento meno solo in questo teatro con voi che nelle manifestazioni pubbliche”.

Nino Di Matteo, il sogno di Giovanni Falcone deluso e tradito

                                                     Nino Di Matteo

 

“In questi 30 anni lentamente ma inesorabilmente la visione, il sogno di Giovanni Falcone sono stati delusi, traditi, ingannati, quotidianamente disattesi, proprio da quelle istituzioni che ipocritamente in queste ore stanno partecipando al gran gioco delle finte e strumentali commemorazioni e che domani tornate a Roma riprenderanno a lavorare per distruggere il patrimonio ideale diventato grazie al lavoro di Giovanni Falcone leggi dello Stato”. Lo ha detto Nino Di Matteo nel corso di un convegno organizzato dalla rivista Antimafia 2000.

“Avevamo detto che Giovanni Falcone era rimasto vittima anche del sistema della magistratura, dei suoi colleghi, delle invidie, delle gelosie, del correntismo esasperato del Csm fu vittima che del sistema che privilegiava all’interno del Csm altre logiche, non quelle del merito legata anche all’appartenenza correntizia e all’influenza della politica all’interno della magistratura – ha aggiunto Di Matteo – Le cronache degli ultimi anni dimostrano drammaticamente come ancora la magistratura non sia riuscita a sconfiggere questo cancro che ancora la divora e ne condiziona l’autonomia e l’indipendenza e la necessaria autorevolezza nei confronti delle altre istituzioni e dei cittadini. Mentre in tanti ipocritamente vi vogliono far credere che le riforme in cantiere prima fra tutte la riforma Cartabia possano sconfiggere quel male. Non è così. La riforma del sistema elettorale del Csm non eliminerà anzi rafforzerà il peso delle correnti all’interno del Csm.

Perché la politica non ha alcun interesse a debellare un sistema del quale si nutre e trae vantaggio. E anche con questo sistema di controllo della magistratura che la politica è riuscita a isolare e neutralizzare magistrati troppo liberi e indipendenti e anche attraverso questo sistema che la politica riesce a valorizzare i magistrati che vengono ritenuti affidabili perché prevedibili nelle loro condotte e controllabili. La riforma Cartabia riuscirà a creare una figura di magistrato che è l’esatta antitesi rispetto a quella di Giovanni Falcone. Disegneranno un magistrato burocrate attento ai numeri e alle statistiche rispetto alla qualità del suo lavoro”.

“Giovanni Falcone – ha detto Nino Di Matteo – era convinto che solo un’attenta e oculata legislazione sui collaboratori di giustizia potesse servire a scardinare dall’interno le organizzazioni mafiose. Oggi nel tempo anni abbiamo assistito ad un implosione totale del sistema di protezione dei collaboratori di giustizia. Con i rischi di ogni tipo, dal rischio per l’incolumità fisica dei collaboratori e dei loro familiari, al rischio di un ritorno nell’attività criminale che non viene controllato e non può essere controllato dallo Stato. Negli ultimi anni sono stati messi in discussione gli aspetti ritenuti essenziali da Giovanni Falcone per combattere la mafia. Il 41 bis e il 4 bis ergastolo ostativo”.

“Se ancora ci troviamo a fare i conti con un fenomeno così complesso e  pervasivo ci dobbiamo porre una domanda. Perché? Io di una risposta sono convinto. Perché lo Stato e tutti governi che si sono succeduti ed in ultimo anche l’attuale governo Draghi non ha voluto considerare la lotta alla mafia tra gli obiettivi principali da perseguire ad ogni costo. In questi 30 anni lo stato ha voluto contenere il fenomeno mafioso ma non lo ha voluto debellare. E chi in diversi ambiti istituzionali ha voluto dare l’impressione di volere alterare questo sottile equilibrio è stato marginalizzato tenuto lontano da incarichi e ruoli nevralgici”. Ha aggiunto Nino Di Matteo.

“Falcone e Borsellino erano ben non attenti nell’approccio all’annosa questione dei rapporti tra mafia e politica a distinguere eventuali responsabilità penali da quelle politiche. Ma rispetto a certi comportamenti accertati auspicavano che si facesse valere la responsabilità politica. Sapevano benissimo che certe collusioni in un paese civile andavano sanzionate prima rispetto a prescindere dalle sentenze del giudice penale.

Dicono che Paolo Borsellino era silenzioso e non parlava. Il 26 gennaio del 1989 parlando a studenti di Bassano del Grappa disse la politica dovrebbe fare pulizia di coloro che sono raggiunti di fatti inquietanti anche quando non costituiscono reato. Oggi invece indizi di un rapporto pericoloso assistiamo a due reazioni tipo la parte coinvolta grida al complotto giudiziario, l’altra parte afferma aspettiamo le sentenze definitive della magistratura come il disvalore di un determinato fatto di un determinati rapporti coincidesse solo con la responsabilità penale. La situazione da quel 1989 è peggiorata.

Noi abbiamo assistito nel tempo a una beatificazione collettiva del senatore Andreotti nonostante una sentenza definitiva ricostruisca i rapporti significativi e molto pericolosi per gli assetti democratici del senatore Andreotti con esponenti di importanti famiglie mafiose palermitane a cavallo, poco prima e poco dopo dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Noi abbiamo assistito in questi anni all’accettazione e all’assuefazione al dato che uno dei partiti che è  stato più a lungo al governo e che è attualmente al governo è stato fondato anche da un mafioso da un soggetto condannato per mafia.

Questo paese ha accettato alla considerazione che quella sentenza fa e cioè che l’onorevole Berlusconi ha stipulato e osservato, dice quella sentenza per almeno 18 anni, un patto di reciproca protezione con la mafia. Noi oggi corriamo l’ulteriore pericolo di assuefarci alla circostanza che per orientare le scelte sulle candidature delle imminenti elezioni a Palermo e le regionali in Sicilia si cerchi i l consenso e l’intermediazione di un condannato per mafia. Non mi stupisce tanto che chi è stato condannato e ha scontato la pena possa anche dire la sua, esprimere la sua opinione, quello che è più preoccupante è se qualcuno lo avesse cercato o lo cercasse per ottenere la candidatura o per ottenere più consenso”. Lo ha detto Nino Di Matteo nel corso di un convegno organizzato dalla rivista Antimafia 2000

Giuseppe Lombardo, Non è un paese normale quello in cui bisogna aspettare 30 anni per la verità

Giuseppe Lombardo procuratore aggiunto di Reggio Calabria

“Giovanni Falcone va ricordato come merita perché era un grande magistrato non perché è morto. Soprattutto perché ha lasciato a noi una traccia e abbiamo l’obbligo di impegnare le forze migliori del nostro paese. Noi ci crediamo che dopo trent’anni si possano dare certe risposte. Non è un paese normale quello in cui bisogna aspettare 30 anni per avere determinate risposte”.

Lo ha detto Giuseppe Lombardo procuratore aggiunto di Reggio Calabria nel corso di un convegno organizzato dalla rivista Antimafia 2000. “Tre sono i principi cardine del moderno agire antimafia: formazione, informazione e contrasto alla disinformazione. C’è troppa gente che parla di cose che non conosce. – ha aggiunto Lombardo – Mi pare che non si possa ancora dire che il percorso ricostruttivo è stato completato quindi che non si possa parlare delle stragi come un fatto passato. E se non è un fatto passato le alternative sono assolutamente secche, vuol dire che è un fatto presente. E sarà eterno presente fino a quando non troveremo le risorse, la forza e la capacità di dare risposte finali che non si fondano sul silenzio che azzera e inganna la coscienza collettiva, rimuovendo il problema mediante subdole forme di censura informativa o di strisciante disinformazione. Il nostro futuro si fonda invece sulla verità, sul coraggio, sul senso del dovere costi quel che costi di, tutti nessuno escluso. Non c’è più spazio per commemorazioni, in cui non si è in grado di dire cosa è successo davvero trent’anni fa. Ma com’è possibile venire a parlare di Giovanni Falcone e assistere a un silenzio assordante?”

“Va inaugurata, se vogliamo essere degni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, e di chi ha per anni lavorato al loro fianco la stagione dei gesti concreti come gli investimenti, l’impegno costante, mantenendo numeroso e visibile il presidio sul territorio e questo non sta avvenendo. O completando in tempi rapidi i presidi di legalità di un paese civile”, dice  Giuseppe Lombardo procuratore aggiunto di Reggio Calabria.

“Avete mai visto il nuovo tribunale di Reggio Calabria? Sono arrivato a Reggio Calabria nel maggio del 2006 e quando sono arrivato mi è stata assegnata una bellissima stanza da cui si vedeva lo stretto di Messina e quindi la Sicilia – ha aggiunto Lombardo – Mi sembra evidente che ‘ndrangheta e cosa nostra fossero una cosa sola. Parlare delle mafie come qualcosa di disgiunto è pericolosissimo. È un vantaggio che non dobbiamo mai dargli. Ma com’è possibile che un palazzo di giustizia interamente finanziato con 100 milioni di euro, in uno stato come il nostro, sia ancora totalmente incompleto. Venite a visitare il palazzo di giustizia di Reggio Calabria. Non arriverete mai alla mia stanza. Dopo tanti anni bisogna superare un bagno. Percorro tristemente ogni giorno quel corridoio pensando che non è degno di un paese civile vivere e lavorare in determinati ambienti”.

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