“Qua nessuno si pente, compa’” dice con orgoglio da padrino uno degli emergenti del mandamento mafioso di San Mauro Castelverde, nelle Madonie. Al compare che l’ascolta con silenzioso compiacimento aggiunge: “Numero uno, perché mi voglio vantare: San Mauro è Corleone”.

I carabinieri, che intercettano quella conversazione, sanno che non è così. Non ci sono pentiti, è vero, ma ci sono imprenditori, almeno quattro, che si stanno ribellando alle pressioni della mafia e alle richieste esose di pizzo che hanno segnato il ritorno di vecchi e nuovi boss di un mandamento considerato una volta fedelissimo dei corleonesi di Totò Riina. Il risultato è il blitz che ha portato al fermo di undici indagati: i componenti del clan Farinella. Quella dei Farinella è una storica famiglia di Cosa nostra.

Il capostipite Giuseppe è morto due anni fa in carcere dove scontava l’ergastolo. Il figlio Domenico detto Mico è tornato in libertà da qualche mese dopo un ricalcolo della pena che stava scontando nel carcere di Voghera, città nella quale è poi rimasto. E da lì teneva le fila di un agguerrito e violento gruppo ricostituito in Sicilia sotto la guida del figlio Giuseppe. La cosca si era intanto allargata con la confluenza di un altro gruppo, quello di Tusa (Messina) guidato da Giuseppe Scialabba, che si occupava soprattutto di imporre il pizzo ai commercianti e a quelli che partecipavano all’Oktoberfest di Finale di Pollina, una borgata vicino a Cefalù.

Ma il clan aveva messo gli occhi soprattutto su Francesco Lena, un imprenditore che gestisce una delle migliori aziende vinicole siciliane, l’Abbazia Santa Anastasia, con annesso resort di lusso tra Castelbuono e Cefalù. Lena è vittima di Cosa nostra, e lo sta dimostrando con le sue denunce. Ma dieci anni fa era stato arrestato con l’accusa di essere un prestanome dei boss Bernardo Provenzano, Salvatore Lo Piccolo e Antonino Rotolo.

Ma è stato assolto e gli sono stati restituiti i beni e l’azienda che gli erano stati confiscati tra le perplessità dei giudici di appello. La cosca faceva ricorso anche a metodi violenti. “Gli ho dato una testata, così gli ho spaccato il naso”, racconta uno dei gregari intercettato. Nel caso di Lena è bastato spendere il nome di Farinella.

Ora a fargli visita era il nipote ma tanti anni fa Lena aveva dovuto pagare al nonno una “sensalia” di 30 milioni, versati all’atto dell’acquisto dell’azienda. Sono storie che vengono da un passato che ritorna come quello di Orazio Sciortino, 51 anni, un ex collaboratore di Vittoria (Ragusa) ucciso in campagna con due fucilate. Pur avendo contribuito a ricostruire i rapporti tra Cosa nostra e la Stidda di Gela culminati nel 1999 con la strage di cinque persone, viveva nel giro della piccola manovalanza criminale. E qui si cerca ora la chiave del delitto che secondo gli inquirenti non sarebbe riconducibile a una matrice mafiosa.

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