Un racconto inedito di Aldo Sarullo *
Marco viveva a Piazza Navona, come altri pochi privilegiati a Roma, luogo dei rammarichi di chi non può andarvi almeno una volta e di chi non può tornarvi.
Da siciliano espatriato ho vissuto per alcuni anni nei pressi di quella piazza e una mattina d’inverno, passando da lì, entrai in un film.
Quando, arrivato da via di Tor Millina – saranno state le otto abbondanti del mattino – entrai nella Piazza e avevo quasi finito di attraversarla obliquamente, verso via Vittorio Emanuele, iniziò la proiezione. “ ‘Ha dda funzionà – deve funzionare – ha dda funzionà…” gridava un voce d’uomo, possente e disperata. Mi girai e vidi che poco distante – qualche decina di metri – proprio davanti al Cafè di Colombia, lì dove c’era il fungo della Telecom con i telefoni a gettone, una piccola folla a semicerchio in cui spiccava la divisa di due vigili urbani era paralizzata mentre un uomo, un omone, fracassava le cornette sbattendole sull’impianto e gridando: “Ha dda funzionà”. Era Marco ed io lo conoscevo bene.
Stavamo spesso, seduti sui gradini di Piazza Navona dell’ingresso secondario della Chiesa di Nostra Signora del Sacro Cuore, a scambiarci parole in libertà, senza cognomi. E quella volta che nella Piazza era stato montato un grande gazebo per ospitare una mostra fotografica sul Tibet, Marco mi pose una domanda smisurata. La scritta vistosa che campeggiava sul gazebo era “Tibet libero” e Marco la guardava come attratto, forse tentato, forse no, forse provocato. Mi dava del lei Marco, forse per la distanza fra i suoi trent’anni e i miei venticinque in più e già imbiancati. E così: “Torno subito, mi scusi”, si alzò, raggiunse il gazebo, estrasse la sua Bic e scrisse qualcosa sul pvc vicino all’ingresso. Poi tornò a sedersi. Io non gli chiesi, sapevo che me l’avrebbe detto e che quel mio silenzio gli dava il piacere di quel tipo di potere che ha chi sa rispetto a chi ignora. “Vuole sapere che cosa ho scritto?” – “Se me lo vuoi dire” risposi. E lui: “Sopra c’è la grande scritta Tibet Libero, e io?”. “E tu?”, chiesi. “L’ho scritto: e io?” e senza accorgersene, fulminò qualunque mia risposta. Che avrei potuto dirgli su quelle due paroline interrogative? Che si dice ad un uomo che chiede le ragioni della sua mancata libertà? Chi – ma lui più di molti – può dirsi libero? Mi sentii inadeguato e soffiai un “Bravo” che lo compiacque, trasse un respiro profondo e poi riempì la bolla d’aria umana, che in quel momento ci accomunava, con il suo conosciuto e vitale alito vinoso. Il primo litro entro le nove del mattino; gli altri a seguire.
“Non mi chieda mai di mia madre”, mi aveva detto un giorno. Non mi ero mai chiesto il perché di quella sua vita che, mai veramente ubriaco, lo vedeva costretto a bere sin dal risveglio. Del resto, un uomo che dormiva sul vecchio cartone di imballo di un frigorifero in quel breve corridoio che porta da Piazza Navona a piazza delle Cinque Lune, un uomo come lui, quasi poeta, quasi filosofo, innamorato delle cose semplici e vere, non suggeriva agli altri nessuna pretesa così detta ragionevole. Anzi, proprio i bottegai e i ristoratori di quella piazza gli davano, come a uno di casa, ogni sostentamento. L’avevo imparato quella volta che alla sua richiesta di una sigaretta io gliela diedi e gli porsi, come seguito complice, diecimila lire. “Lei non ha capito gnente! Mi perdoni, ma lei non ha capito!” mi aveva detto rifiutando il denaro, deluso. “Vede? Vede quegli uccellini? Hanno bisogno di soldi? No! E perché io dovrei?”. Tacqui. Avevo imparato.
Marco, in quella Piazza, oltre che a casa propria, si sentiva come incaricato di un pubblico servizio. Cioè, era servizievole. E se il pallone sfuggiva lontano dai bambini che giuocavano, lui correva a prenderlo e glielo riconsegnava, felice. Certo, a volte un genitore – preoccupato dal contatto tra il proprio bambino e quell’omone visibilmente squinternato – interveniva ruvido. Allora Marco, frainteso e offeso, si imbestialiva e quel genitore veniva salvato dall’intervento dei consapevoli bottegai. A volte intervenivano i poliziotti o i carabinieri che si trovavano lì in servizio, ma senza conseguenze: Marco era così e lo sapevano tutti, quando non sembrava innocente non era mai colpevole.
“Ha dda funzionà!”. “Marco! Fermo!” gli gridai da lontano e lui si bloccò, con il braccio alzato e una cornetta in mano per distruggere anche questa. Tutti si volsero verso di me ed io iniziai la mia corsa verso quel piccolo mondo confuso, spaventato. Correvo e mi vedevo. Mi fecero largo come quando in una strada affollata di automobili sopraggiunge sonoramente un ambulanza. Accarezzai Marco e i suoi occhi infuocati tornarono bambini. “Che ti hanno fatto?”, gli chiesi. “Ha dda funzionà, io devo chiamà mi fratello…” spiegò con voce inerme. Guardai la piccola folla di quei giudici ormai fuori servizio, costretti a non sentirsi più i migliori perché Marco era tornato come gli altri. “Che vuole, non funzionano” mi disse uno dei due vigili urbani. “Che voglio?” gli risposi, poi misi un braccio sulle larghe spalle del mio amico e lo rassicurai: “Ora ti porto in un altro posto e potrai telefonare a tuo fratello”. Marco posò con cura gentile la cornetta, mi si accucciò vicino e ci muovemmo per lasciare quel posto. “E chi paga i danni?” Mi intimò un vigile. Mi girai a guardarlo e “Ha dda funzionà, ha capito? Ha dda funzionà” risposi io severo; e ne attesi per un attimo la reazione. Nulla. Ognuno, lentamente, riprese la propria strada nella propria vita. =====
Poi Marco sparì. Capitava di non vederlo per qualche giorno, ma non vi facevo caso. La mia vita mi portava a non avere abitudini stabili. Però una volta Marco fu così assente da farmene accorgere. Chiesi in giro. “E’ in carcere” mi disse un oste e mi raccontò che il nostro comune amico aveva preso un’iniziativa sbagliata: aveva pensato di passare una giornata all’Estero, a Piazza di Spagna. E lì era come uno straniero. Sconosciuto da tutti. Era accaduto che aveva reagito contro un papà che aveva tirato via il figliuolo dalla prossimità con quel barbone e Marco aveva protestato, a suo modo. Erano intervenuti i carabinieri con i loro comprensibili rimproveri e il mio amico, sconosciuto a loro come a tutti i presenti, aveva spaccato la sedia di un bar sulla schiena di uno dei due militari. A Piazza Navona non sarebbe accaduto.
Passarono tre anni. Quando lo rividi faticai a riconoscerlo, era diverso, straniato, svuotato. Anche la voce pareva sterile, con pochi residui di anima. lo abbracciai e gli chiesi come stesse. “Sto per morire, come Cristo – rispose – lo sapevamo che sarebbe finita presto”. E fu ancora una volta di parola. I poeti non mentono.
- scrittore e regista
Commenta con Facebook