Ci sono voluti cinque anni per accertare quello che era evidente sin dalle prime battute. Gaetano Marchese direttore del 118 è stato sottoposto ad un linciaggio mediatico che non meritava.

Non lo meritava per il lavoro svolto negli anni, per la correttezza e la lealtà che ha sempre dimostrato nel lavoro.

Dopo cinque anni in un’aula del tribunale si conferma che il direttore del 118 poteva salvarsi da morte sicura solo facendo arrivare in Sardegna un elicottero del 118.

Appena operato a cuore aperto ha dovuto subire un’aggressione feroce che lo ha annientato.

La colpa di Gaetano Marchese essere direttore della centrale operativa. E stava chiedendo per sé lo stesso trattamento che è stato garantito a decine di pazienti presi in Calabria, in Sardegna, e in diverse zone dell’Italia.

Ieri il pm Enrico Bologna ha chiesto l’assoluzione del medico, imputato di peculato assieme al suo ex vice, Fabio Genco, oggi direttore in città e a Trapani.

Stato di necessità, ha invocato il rappresentante dell’accusa davanti alla terza sezione del Tribunale, presieduta da Fabrizio La Cascia, a latere Maria Ciringione e Elisabetta Stampacchia. In sostanza o Marchese (ancor oggi alle prese con problemi fisici tutt’altro che lievi) veniva trasportato al più presto in Sicilia o sarebbe senz’altro morto.

Da qui la richiesta di scagionare gli imputati perché il fatto non costituisce reato (grazie allo stato di necessità) o non sussiste. I giudici hanno rinviato per le arringhe della parte civile, l’Azienda ospedaliera Civico, patrocinata dall’avvocato Claudia Profera, e dei difensori dei due sotto accusa.

Lo stesso pm ha fatto proprie le tesi che sostengono da tempo gli avvocati Francesco Bertorotta (che assiste Marchese) e Giuseppe Gerbino, legale di Genco.

E questo dopo avere ascoltato, ieri mattina – nonostante le limitazioni processuali dovute al pericolo Coronavirus – l’ultimo testimone della difesa. Michele Pilato, noto cardiochirurgo, esperto in trapianti, fu il medico che all’Ismett operò e salvò la vita a Marchese, dopo il suo arrivo in città, il 16 gennaio 2015. «Il paziente – ha detto il direttore della Cardiochirurgia dell’istituto – giunse dalla Sardegna in condizioni disperate. L’elicottero era l’unico mezzo che poteva trasportarlo fin qui senza rischi e in tempi rapidi». I

trasferimenti da altre regioni erano pure usuali: in sostanza, anche se non fosse stato il direttore della centrale operativa, si sarebbe potuto e dovuto agire nello stesso modo.

Anche Marchese, nonostante le condizioni fisiche precarie, si è fatto interrogare e sempre ieri ha raccontato in aula come i ritardi e la inefficienza degli ospedali sardi lo convinsero che se fosse rimasto lì sarebbe morto: da qui la sua decisione di far arrivare ad Alghero l’eliambulanza del «suo» 118, per farsi poi trasportare all’Ismett. Si parlò di una sorta di taxi utilizzato privatamente: ma in realtà, sostiene la difesa, si trattava di scegliere tra la vita e la più che probabile morte.

Il problema fisico, come confermato dai medici e dagli esperti che hanno esaminato il caso, era molto importante, dato che si trattava di una dissecazione dell’aorta di grado

A. Gli avvocati Gerbino e Bertorotta avevano più volte ricordato che la Corte dei conti, quando aveva esaminato il caso, lo aveva archiviato, escludendo il danno erariale. Nella requisitoria il pm ha citato proprio questo provvedimento, sottolineando pure che in Sardegna non c’è un centro di eccellenza cardiochirurugica.

Sussisteva dunque per Marchese uno stato di necessità, quantomeno putativo: nella sua convinzione, cioè, l’elisoccorso era l’unico mezzo per non morire. Riguardo alla posizione di Genco il pm ha sostenuto che solo una «logica bieca e ottusa di formale adesione al regolamento avrebbe potuto indurlo a negare l’aiuto richiesto, che invece evitò all’imputato il pericolo di un danno grave e irreparabile alla persona».

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