Sono lì da decenni, molte anche a poche miglia dalla linea di costa, tanto da essere ben visibili ad occhio nudo e censite da Goletta Verde. Invadono principalmente l’Adriatico, ma pure il mar Ionio e il canale di Sicilia. Con una certezza: la corsa all’oro nero nei nostri mari è tutt’altro che terminata.
Legambiente ha censito – tra le 69 concessioni di coltivazione di gas e petrolio – ben 135 piattaforme a mare e 729 pozzi. Di queste 38 piattaforme e 121 pozzi hanno ormai terminato la loro attività produttiva o erogano ormai talmente poco da far suppore che le compagnie stiano semplicemente ritardando la loro chiusura formale e, di conseguenza, l’obbligo e gli oneri di smantellamento e ripristino iniziale dei luoghi, come previsto dalla normativa. È per questo che Legambiente lancia la campagna #Dismettiamole, affinché si affermi un nuovo modello energetico pulito, rinnovabile e democratico, che faccia gli interessi dei cittadini italiani e non delle compagnie petrolifere.
Il dossier #Dismettiamole è stato presentato questa mattina a Marina di Ravenna, in occasione della tappa della Goletta Verde, la storica campagna a tutela dei mari e delle coste italiane che sta per terminare il suo periplo della Penisola.
“Più volte hanno provato a rassicurarci ma, come volevasi dimostrare, nuovi pozzi, dentro e fuori le aree vincolate, e nuove attività di ricerca, estrazione e prospezione continuano a mettere a rischio il mar Adriatico, lo Ionio, il Canale di Sicilia e il mar di Sardegna – ha dichiarato il responsabile scientifico di Legambiente Giorgio Zampetti -. Occorre evitare che nuovi tratti di mare siano coinvolti dall’impatto di queste attività, ma riteniamo sia giunto anche il momento di mettere in campo una strategia che si ponga l’obiettivo di dismettere le piattaforme presenti nel mar Mediterraneo e in quello italiano in particolare. In altre parti del mondo questo processo di cambiamento è già cominciato, basti pensare alle vicine Francia e Croazia che stanno dando il via ad una moratoria generale. L’Italia invece rimane l’unica ad avere un così alto numero di attività vicine alla propria costa a vantaggio esclusivamente delle compagnie petrolifere, perché è evidente che, in gran parte, si tratta di impianti assolutamente non strategici né dal punto di vista energetico, né economico, mentre continuano a tutti gli effetti a mettere a rischio l’ecosistema marino e le altre attività legate al mare”.
Non solo i vecchi impianti mettono in pericolo il mare, il suo ecosistema e le attività economiche ad esso collegate, perché il rischio di nuove trivellazioni e nuovi impianti è dietro l’angolo: sono infatti quattro le richieste di concessione di coltivazione che interessano i mari italiani; due di queste riguardano la zona dell’alto Adriatico ed appartengono una alla Stargas Italia e l’altra alla Po Valley; un’altra istanza di concessione invece riguarda il tratto di Mar Adriatico davanti la costa Abruzzese mentre l’ultima istanza interessa il Canale di Sicilia. Alle precedenti richieste si aggiungono anche 22 permessi di ricerca rilasciati nei mari italiani, di cui 8 in alto Adriatico, 6 lungo le coste marchigiane ed abruzzesi, 5 nelle acque siciliane, 2 nel basso Adriatico di fronte le coste pugliesi e nel mar Ionio. In totale sono ben 7.254,5 i chilometri quadrati di mare destinati alle attività̀ di ricerca. Trentadue sono invece le istanze di permesso di ricerca sul tavolo del Ministero dello Sviluppo Economico che potrebbero nel giro dei prossimi anni terminare il loro iter procedurale andando ad interessare ulteriori 15.362,6 kmq di mare.Rientrano infine tra le future possibili minacce per i mari italiani anche le otto Istanze di permesso di prospezione, delle indagini geofisiche altamente impattanti in quanto eseguite mediante la tecnica dell’airgun, per un totale di quasi 95mila chilometri quadrati di mare. Proprio per fermare l’utilizzo della tecnica dell’airgun Goletta Verde ha rilanciato da Vasto nei giorni scorsi una petizione che ha già superato le 66mila firme.
“Ci auguriamo – ha dichiarato la presidente di Legambiente Rossella Muroni – che venga intrapreso al più presto un serio percorso di confronto tra tutti i soggetti competenti per ragionare in maniera lungimirante su quale debba essere il futuro ambientale, energetico ed occupazionale del nostro Paese nei prossimi decenni. Al contrario del settore petrolifero, che rischia il fallimento a causa del calo dei consumi e del crollo del prezzo del petrolio, i settori delle rinnovabili e dell’efficienza sono in forte crescita e con norme e politiche adeguate potrebbero generare almeno 600mila posti di lavoro, circa 10 volte di più di quanto riesce a fare il settore petrolifero oggi. Numeri e prospettive che non possono lasciare indifferenti e il progressivo smantellamento delle piattaforme potrebbe rappresentare l’inizio di una nuova era, anche dal punto di vista occupazionale”.
Dismissioni da valutare anche sulla base delle conseguenze ambientali e dei costi per la collettività che queste piattaforme potrebbero avere. Ragionamento particolarmente importante, ad esempio, per gli impianti eroganti che estraggono sotto costa, soprattutto nella zona dell’Alto Adriatico, per via del fenomeno della subsidenza, cioè l’abbassamento del suolo. L’estrazione di gas sotto costa, anche se non è l’unica causa di tale fenomeno, resta il principale fenomeno antropico che causa la perdita di volume del sedimento nel sottosuolo generando un abbassamento della superficie topografica. I dati dei monitoraggi Arpa evidenziano come le conseguenze più rilevanti si registrano in particolare sulla fascia costiera dell’Emilia Romagna che negli ultimi 55 anni si è abbassata di 70 cm a Rimini e di oltre un metro da Cesenatico al delta del Po.
Un caso esemplificativo è quello della piattaforma di estrazione di gas Angela Angelina, costruita nel 1997 a soli 2 km dalla costa di Lido di Dante (RA), collegata a 10 pozzi eroganti e 4 non eroganti. La piattaforma è stata al centro del dibattito referendario, a causa dei suoi effetti sull’aumento della subsidenza lungo la costa.
Il tema dello smantellamento delle piattaforme è stato anche oggetto di una lettera di diffida a firma di Greenpeace, Legambiente e WWF inviata nel maggio 2016 al ministero dello Sviluppo Economico, sottolineando come, allo stato attuale dei fatti, diversi titoli abilitativi, per lo più localizzati entro la fascia delle 12 miglia, siano da rivedere e da controllare accuratamente per determinarne l’eventuale non compatibilità con le normative di settore, con conseguente revoca del titolo e obbligo di ripristino e bonifica delle aree da parte delle società titolari.
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