Un giornalista siciliano prende carta e penna e scrive una lettera al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte parlando di merito e carriera. Il giornalista siciliano è Claudio Zarcone, padre di Norman, il dottorando palermitano di 27 anni che nel 2010 si tolse la vita lanciandosi da una finestra dell’Università di Palermo in segno di protesta e ribellione
contro un sistema che non premia i più capaci ma solo i figli o i parenti di chi occupa posti di potere.

Ecco il testo della lettera di Claudio Zarcone:

LETTERA APERTISSIMA, IN TONO SEMI-SERIO ANZI SERISSIMO, AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO

Egregio Professore, Signor presidente del Consiglio, lungi da me l’idea di voler insinuare qualcosa – come ha fatto un quotidiano nazionale – sulla liceità della sua carriera accademica. Su conoscenze, commissari d’esame, frequentazioni, collaborazioni ecc.

Sono di questo mondo e so come esso funzioni. Se non vi sono prove schiaccianti si rimane nel campo delle illazioni, delle sterili argomentazioni (oggi si parla addirittura di post-verità), sappiamo benissimo – io e lei – che l’Accademia, il mondo dell’Università, è un tempio di cultura. E sappiamo benissimo – io e lei – che a cercare (e trovare) il malaffare si fa presto, in ogni settore del pubblico e delle professioni. Ma da giornalista quale sono (orribile categoria, mi creda, peggio dei baroni universitari), mi ritornano in mente le parole di un professore ordinario ai microfoni di una giornalista Rai (conservo almeno dieci copie del filmato): “I concorsi per ricercatore sono legalmente truccati”.

Allora io, con quel viziaccio del cronista, del giornalista che a tutti i costi deve vederci chiaro, faccio delle semplici inferenze mentali: “Se sono legalmente truccati i concorsi per ricercatore, quelli per Associato o Ordinario fanno eccezione?”. Domanda idiota, non me ne voglia, figlia dello specchio incrinato che riflette i miei pensieri, anch’essi idioti. Però mi tornano in mente le parole di Matteo Fini, ricercatore italiano, che ha denunciato: “In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato […] Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo”. Cazzo, mi son detto, vuoi vedere che quel professore aveva ragione? Che i concorsi universitari sono “legalmente truccati”?

Non mi dica di non aver mai avuto notizia, anche negli ultimi anni, di figli di ministri, rettori, notabili vari (appunto: “figli di”), che sono diventati Ordinari o Associati alla “veneranda” età di trent’anni.

Eppure, da stronzo empirico quale sono e non avendo studiato al Cepu, quattro conti li so fare. O almeno penso di saperli fare, insieme alle migliaia di stronzi empirici come me. Per diventare Ordinario, punta massima dell’insegnamento accademico, si dovrebbe aver prodotto una mole più che consistente di materiale scientifico, o aver fatto qualcosa di sensazionale ai fini della ricerca e giù di lì. Più o meno dovrebbe funzionare così. Allora qualcuno – non necessariamente lei, Professore – saprebbe spiegarmi con quale criterio ispirato da meritocrazia, si possa diventare Ordinari a trent’anni?

A me, ripeto, stronzo empirico, quei conti non tornano.

“Il bordello è l’unica istituzione italiana dove la competenza è premiata e il merito riconosciuto”, mi pare dicesse Indro Montanelli. Ma tant’è…

Vede Professore, non mi appassionano le diatribe sui titoli professionali esibiti dai nostri politici, i quali, come cantava Guccini, “han ben altro a cui pensare”. Non mi appassionano le batracomiomachie fra politici e giornalisti. Vede Professore, non ho nessun motivo di astio personale nei suoi confronti e politicamente sono conosciuto per essere agli antipodi di quel quotidiano nazionale che ha fatto le pulci al suo curriculum.

Ma sono incazzato con lei, professor Conte. Perché? Chi sono?

Il mio nome è Claudio Zarcone, padre di Norman, “suicidato” da quel sistema infetto che oggi viene comunemente chiamato delle “baronie universitarie”, nel pomeriggio per me brumoso del 13 settembre 2010. Sono Claudio Zarcone, giornalista professionista, uomo fra gli uomini e custode di una tragedia incommensurabile che ha poi prodotto anche la fine della mia famiglia. Claudio Zarcone, un nome che non dice niente; un nome che intende difendere fino alla morte la memoria di un figlio talentuoso, laureato con lode, che credeva nelle istituzioni e nel merito, a sua volta giornalista, musicista, bagnino d’estate “per apprendere l’etica del lavoro” e dottorando di ricerca senza borsa al suo terzo e ultimo anno.

Non ho avuto giustizia, per contro la mia famiglia è stata azzerata come per effetto di una valanga che prende velocità e aumenta le proprie dimensioni nel corso della sua discesa a valle. Ed io sono rimasto solo a lottare non so più contro chi. Essi sono troppo forti per essere battuti, essi hanno molti complici e manutengoli. Hanno troppi nomi istituzionali con i quali si fiancheggiano a vicenda, mestatori della nostra Italia senza più direzione di marcia.

Ho scritto agli “autorevoli”, agli intellettuali, ma ho trovato appena vergognosi muri di silenzio.

Letta, Renzi, Gentiloni, ministri, presidenti e commissari europei, governatori: silenzio assordante. Ma ho scritto anche a lei Professore, alla pec del Governo, alla sua pec. Le ho scritto penso sei-sette volte. Silenzio assordante. Poi è venuto a Palermo lo scorso mese di settembre (due giorni dopo l’anniversario della morte di Norman), in occasione delle Celebrazioni in memoria di Pino Puglisi. È venuto a Brancaccio, il mio quartiere, il quartiere dove Norman abitava, il quartiere che ricorda mio figlio con una strada a lui intitolata (la “Rotonda Norma Zarcone”); la stessa strada che lei, professore, ha percorso per recarsi in quella scuola dove ha recitato il suo monologo istituzionale senza un dibattito coi giornalisti. Sarei potuto venire anche a piedi se fossi stato convocato dalla sua segreteria. Ma anche lei – devo desumere – ha preferito la via del silenzio. Eppure le mie lettere erano/sono chiare. Volevo incontrarla per raccontarle una storia e tenere viva la memoria di un giovane brillante che ha osato gridare il proprio sdegno. Le chiedevo un segno delle istituzioni. Le chiedevo di non far morire l’attesa che i cittadini nutrono nei confronti dello Stato, troppo spesso emulo di Crono, divoratore dei propri figli. Non ho ricevuto neanche una telefonata da parte di uno dei suoi segretari. Neanche la solita, odiosa, pacca sulle spalle che le istituzioni distribuiscono a tutto spiano. Ero a pochi passi da lei, Professore, non ha inteso parlarmi. Ecco perché sono incazzato.

Per le modalità d’accesso alla carriera universitaria, potrà anche immaginare come io la pensi, ma siamo tutti assolutamente innocenti e legittimati nel nostro percorso, fino a prova contraria, non ho interessi di sorta per alimentare sospetti e rancori sociali. Le rinnovo, semmai, la mia delusione. La mia incazzatura. Per il resto: ‘niente a pretendere’.