È iniziata ieri la deposizione del pentito di mafia Filippo Salvatore Bisconti nel processo Brasca contro 21 imputati ritenuti appartenenti alle famiglie di Villagrazia e Santa Maria di Gesù, tutti condannati in abbreviato a due secoli complessivi in primo grado. Il pentito arrivato all’età di 59 anni si è lasciato andare a dichiarazioni personali, parlando anche di religione e prendendo le distanze dall’organizzazione di cui ha fatto parte fino al momento in cui ha deciso di collaborare con la giustizia. “La mafia non c’entra niente con la religione, anzi, soni in antitesi”. È il concetto espresso da Bisconti che sarebbe stato ispirato al pentimento dalle parole di Papa Francesco e di Giovanni Paolo II.
All’interno dell’aula bunker del carcere Pagliarelli l’ex boss di Belmonte Mezzagno ha risposto al pg Carlo Marzella e ha raccontato del percorso personale che lo ha condotto fino al pentimento, ammettendo di essere stato parte attiva alle trattative per la ricostituzione della Cupola, la commissione provinciale. Bisconti venne arrestato il 4 dicembre 2018. “Decisi di collaborare un mesetto dopo il mio ultimo arresto – ha detto -. Ritengo che continuando a stare in Cosa nostra avrei fatto del male a tutta la mia famiglia. I miei figli hanno preso le distanze da me e non me l’aspettavo. Questo mi ferisce. Pure mia moglie si è dissociata”. La moglie è figlia di Vincenzo Bontà, uno degli anziani capimafia di Villagrazia. “La mia decisione spero sia sacrificale per me. Io spero che moglie e figli possano vivere bene per il futuro, i problemi di un carcerato gravano solo ed esclusivamente sulla famiglia”.
Dopo il suo arresto Bisconti negò di avere partecipato alla riunione del 19 maggio dell’anno scorso. “Leandro Greco, il nipote del Papa, Michele Greco – ha sottolineato Bisconti -: avrebbe detto che non c’era bisogno che noi dei paesi andassimo, ci avrebbe rappresentati lui”. “A fine estate vennero a prendermi alla Magione e andammo in un locale là vicino. C’eravamo io e Salvatore Sciarabba per Belmonte e Misilmeri, Gregorio Di Giovanni per Palermo Centro e Porta Nuova, Leandro Greco per Croceverde Giardini e Ciaculli, Colletti per Villabate e Bagheria. Fu proprio Francesco a lamentarsi, Greco disse che l’aveva fatto per evitare problemi, ma Di Giovanni sapeva che l’aveva proposta grossa, erano decisioni che non poteva prendere lui da solo”. Colletti però al termine del vertice mafioso rivelò tutti i particolari al suo autista, Filippo Cusimano. Una microspia piazzata dai carabinieri nell’auto registrò tutto e, come precisa Bisconti rispondendo al controesame degli avvocati, la commissione non vide mai la luce.
Bisconti nel corso della sua deposizione ha anche tracciato le tele della Cosa Nostra locale, parlando, in particolare della famiglia di Villagrazia: “Gestisce Cosa nostra in maniera un po’ arcaica, nel senso che gli affiliati non si presentavano a tutti coloro che non facevano parte di quel mandamento”. E ne ha per tutti quando il pg gli sottopone l’album fotografico degli imputati al processo. Antonino Capizzi è figlio di Benedetto e fratello di Sandro, “che me lo presentò ritualmente”, parla di Mussu tagghiatu di Altofonte, “dove i Capizzi erano di casa perché è il paese della madre”, di Giovanni Messina, “aveva le onoranze funebri e i funerali si dovevano fare tutti da lui”. E poi Santi Pullarà, figlio di Ignazio: “Mi faceva capire che era tutto suo o in comproprietà. Pensavo parlasse molto ma in realtà si muoveva molto e voleva che tutti parlassero con lui, che gli chiedessero permesso. Era giovane ma si voleva atteggiare a persona matura, anziana, consapevole, una volta rimproverò il costruttore Pietro Lo Sicco. Sì, parlava troppo: quando andava a colloquio col padre in carcere, diceva a tutti che gli avrebbe riferito le nostre cose. Ed era inutile dirgli che in carcere i colloqui sono registrati. I suggerimenti paterni non li recepiva”.
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