“C’era un rapporto di vicinanza tra il dottore Arnaldo La Barbera e alcuni esponenti di Cosa Nostra. La prima volta che ho sentito il nome di La Barbera fu dopo una rapina a Palermo, nei primi anni ’90, quando aveva sparato a un rapinatore della zona Acquasanta uccidendolo. Siccome nelle regole di Cosa Nostra quelli che potevano sparare erano solo loro, Salvatore Biondino, con cui avevo buoni rapporti, mi aveva comunicato che bisognava uccidere Arnaldo La Barbera”. Lo ha detto il collaboratore di giustizia Francesco Onorato, in collegamento da un sito riservato, nel corso dell’udienza di oggi pomeriggio del processo sul depistaggio delle indagini della strage di via D’Amelio che si celebra a Caltanissetta.

L’udienza

Nell’ultima udienza la Corte d’Appello, presieduta da Giovanbattista Tona, aveva disposto la riapertura dell’istruttoria dibattimentale e l’esame dei collaboratori di giustizia Francesco Onorato e Vito Galatolo. Quest’ultimo oggi non ha potuto deporre perché assente per motivi di salute. “Un poliziotto – ha continuato Onorato, rispondendo alle domande del pm Maurizio Bonaccorso, applicato alla Procura – non poteva permettersi di uccidere una persona, per le regole di Cosa Nostra. Biondino mi dice anche però che Riina e i Madonia tenevano a questo La Barbera, che lo avevano ‘nelle mani’ e allora avevano archiviato questa cosa e non se n’è fatto più nulla. Successivamente Biondino, che era il portavoce in quel periodo di Riina mi comunica che si doveva uccidere La Barbera”.

Il ruolo di La Barbera

“La Barbera sparò a un ragazzo, Girolamo Fasone, nel corso di una rapina in un centro estetico nel centro di Palermo. Era il 4 gennaio del 1992. In quel periodo facevo parte della famiglia mafiosa di Partanna Mondello, del mandamento di San Lorenzo”. Lo ha detto collaboratore di giustizia Francesco Onorato che ha raccontato l’omicidio del rapinatore nel corso della sua deposizione al processo sul depistaggio delle indagini della strage di via d’Amelio che si celebra a Caltanissetta. A sparare al ragazzo fu Arnaldo La Barbera, poliziotto poi a capo del gruppo di indagine Falcone Borsellino, all’epoca capo della squadra mobile di Palermo. Al dibattimento d’appello in corso sono imputati per avere inquinato le indagini sull’attentato tre poliziotti che lavorarono con La Barbera, ritenuto, dall’accusa, la mente del depistaggio dell’inchiesta sulla morte del magistrato. “Biondino – continua Onorato – mi parlò del fatto che proprio per questo Arnaldo La Barbera doveva essere ucciso, perché non era consentito a chi non faceva parte di Cosa Nostra di uccidere qualcuno. Fu in quella occasione che mi confidò che i Madonia e Riina tenevano a La Barbera. E infatti successivamente mi disse che non se ne faceva più nulla. Questo avveniva prima dell’omicidio Lima che ci fu dopo 2 o 3 mesi”.

“Poi Biondino tornò a parlare del fatto che si doveva uccidere La Barbera e quindi io cominciai a studiarne abitudini e movimenti e per fare questo mi recai all’hotel Perla del Golfo, a Cinisi. Mentre mi trovavo lì, che studiavo dalla piscina i movimenti di La Barbera, è saltato in aria il dottore Borsellino. – spiega – L’indomani, subito dopo la strage di via D’Amelio, a La Barbera venne rinforzata la scorta. Mentre ero lì alla Perla del Golfo mi chiamò mio cugino, che era nella direzione dell’hotel, e mi disse che erano venuti i carabinieri per segnalare che alloggiava un mafioso in quell’hotel. Il mafioso ero io e quindi cominciai a preoccuparmi. Il progetto fallì perché mi sentivo gli sbirri addosso”.

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