La Corte di Strasburgo ha bocciato il ricorso presentato dall’Italia contro una sentenza che bocciava il “fine pena mai”, definito come una pena disumana e degradante, che non da la possibilità ai detenuti di riscattarsi e di reintrodursi nella società. Una decisione non vincolante per lo Stato italiano ma che con molta probabilità darà seguito numerosi ricorsi.

In Italia  sono 957 detenuti sottoposti al 41 bis che aspettavano il pronunciamento per avviare nuovi ricorsi.

Con la sentenza della Corte Europea, infatti, si aprirebbe uno scenario tutto nuovo nel panorama giudiziario italiano che era stato rifondato, pezzo per pezzo, dall’impegno dei magistrati uccisi dalla criminalità organizzata. Giovanni Falcone fu uno dei primi giudici che diedero impulso alla lotta a cosa nostra con l’imposizione del carcere duro ai boss che si erano macchiati di efferati omicidi e che avevano iniziato con lo Stato una vera e propria guerra. Il carcere duro previsto dall’articolo 41bis del Codice di procedura penale così rischia di essere annullato a numerosi ergastolani che sono pronti a ricorrere dopo la decisione della corte europea.

Ma come, sottolinea anche procuratore capo di Palermo, Francesco Lo Voi, la sentenza non impone all’Italia di cambiare o addirittura annullare la pena del carcere duro. La decisione spetterà comunque al legislatore italiano. Come sottolinea Piero Grasso, ex procuratore nazionale antimafia e ex presidente del Senato, “la decisione di non accogliere il ricorso dell’Italia è figlia di una scarsa conoscenza del modello mafioso italiano. Non è un caso che l’abolizione dell’ergastolo fosse uno dei punti del ‘papello’ di Riina per fermare le stragi. Questa legge, dura ma non incostituzionale, pone i mafiosi davanti a un bivio: essere fedeli a cosa nostra e pagarne le conseguenze o collaborare con lo Stato e iniziare il processo di ravvedimento e rieducazione previsto dalla Costituzione. Senza di questo non si può concedere alcun beneficio”. Ma Grasso aggiunge che “fortunatamente la sentenza non avrà effetti immediati, aspettiamo la Corte Costituzionale che si dovrà pronunciare in merito nelle prossime settimane”.

Intanto preoccupazione viene espressa dal mondo dell’antimafia. Da Maria Falcone, sorella del giudice assassinato da cosa nostra e presidente della Fandazione Falcone, che invoca una soluzione che non vanifichi anni di lotta alla mafia, a Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo Borsellino, che parla di “Un regalo che neanche l’Italia aveva mai fatto alla mafia”.

Il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo,  parla di “responsabilità di chi nel Ministero Grazia e Giustizia e nel Governo non è stato capace di contrastare la tesi della Corte di Strasburgo improntata sul buonismo ad ogni costo, limitandosi a richiedere un nuovo giudizio, senza tra l’altro
argomentarlo in maniera precisa, circostanziata e soprattutto basandolo sulla pericolosità dei
condannati per reati di mafia, criminalità e terrorismo”.

Sarà dunque compito del legislatore nazionale trovare un ragionevole equilibrio tra i diritti rimarcati dalla Cedu, come ha spiegato Lo Voi, e le particolarissime caratteristiche delle associazioni mafiose che operano in Italia e che vedono come principale regola la permanenza del vincolo associativo fino alla morte o alla collaborazione con la giustizia degli affiliati. L’ultima parola spetterà alla Corte costituzionale italiana.

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