(di Rosana Rizzo) Il sociologo Franco Ferrarotti sostiene che l’obiettivo fotografico possa essere paragonato all’occhio del ciclope nella caverna di Ulisse, un occhio che come “un obiettivo grand’angolo è onnicomprensivo e stupido ad un tempo”; la realtà è Ulisse che esce dalla caverna, non visto, aggrappato al vello del montone.

La realtà è, dunque, solo nella intenzionalità del fotografo creatore, se manca questa intenzionalità cade anche il significato della realtà stessa. La fotografia come atto creativo presuppone che vi sia una percezione assolutamente unica di ciò che viene rappresentato, che sfugge se l’obiettivo che guarda non ha una idea, ottuso come il gigante dell’Odissea.

Guardando le fotografie di Giovanni Franco si ha sempre la certezza di un racconto, di una interpretazione della realtà che può sfuggire, specialmente se l’oggetto della rappresentazione è prigioniero di stereotipi. Nel caso di Ballarò il pericolo è dietro l’angolo, lo stereotipo delle carni appese, della frutta in esposizione è presente in ogni foto di ogni turista abbagliato dal pittoresco.

Ma in questo caso il racconto si pone in modo differente: in tutte queste opere non c’è folclore, non c’è pietismo, non c’è mera analisi sociologica, ci sono sorriso e rispetto. Il viso sorridente e compiaciuto del venditore che allarga le braccia sulla sua mercanzia è un elemento solo apparentemente incongruente, in realtà è la chiave per capire il significato dell’intero racconto: la merce è posata su due carrozzine da bimbo, dall’altro lato c’è un carrello da supermercato riempito di nulla, di miseri lacci, ai piedi ed intorno cartacce e netturbe, eppure quel viso esprime sorridente compiacimento nella meritata pausa.

Lo stesso stridore è in ogni foto: nello sguardo luminoso del lavoratore di pelli, nel venditore di broccoli di cui sembra di sentire l’abbanniata, ma soprattutto vi è stridore tra l’azione, l’oggetto della azione ed il contesto; i visi, le azioni di tutti questi personaggi mostrano impegno, hanno “armato la bottega” anche se la bottega non esiste , anche se la mercanzia è solo una scoria di ciò che altri hanno consumato e ritenuto ormai inutile. Si allestisce la bottega sul marciapiede: un water, un televisore, una macchinina gialla, persino un corno verde appeso ed un trenino di latta rossa; si decora la porta di una casina fatiscente con un nulla colorato, si appende all’anta l’unica cosa preziosa, un vecchio cappotto usato e ci si siede soddisfatti ad aspettare.

Anche qui c’è una stratificazione sociale, sembra che le basi di appoggio della mercanzia ne sia il discrimine: dalla bottega con il banchetto annesso, fino ai tavolini di plastica, per arrivare al marciapiede, il gradino più basso di questa gerarchia del bisogno, ma le espressioni sono le stesse: l’attenzione per ciò che si vende è assoluta, il venditore di olive accarezza con lo sguardo la sua collinetta lucida di olio, non è da meno la cura con cui si piega un giubbotto usato appena sollevato da terra.

L’incongruenza è anche nel gioco leggero dei bambini sui tetti fatiscenti, nelle reti che ingabbiano quei giochi, ma anche nelle sbrecciature dei caseggiati, dove il nuovo delle case popolari si incastra nell’antico ed ancora nelle casupole abusive. Sembra che queste fotografie ribaltino il prototipo dell’occhio cinico che si diverte dileggiando gli accattoni: queste immagini ci dicono che in questo luogo non sono solo le scorie del nostro consumo ad avere un valore, ma anche coloro che le rendono nuovamente utili. Saul Leiter, grande fotografo americano, sosteneva che la rappresentazione della infelicità non fosse più profonda della rappresentazione della felicità, che può essere chiave per interpretazioni meno pietistiche e scontate. Ci si lasci, dunque, guidare dallo sguardo dell’artista, dai colori che ci orientano, da chi guarda senza giudizio, sorridendo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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