Stiamo qui ad interrogarci dal 9 marzo scorso, ininterrottamente, tutti i giorni che il bollettino quotidiano della Protezione civile ci ha mandato in terra, e anche dopo l’addio di Angelo Borrelli all’appuntamento canonico delle 18, sul perché regioni come la Lombardia, epicentro dell’epidemia italiana (ma anche l’Emilia Romagna o il Piemonte) abbiano registrato – e tendenzialmente lo fanno ancora – un numero così elevato di contagi. Nonostante il lockdown che ieri è arrivato al capolinea. Formalmente infatti, la ripresa è stata avviata con il ritorno al lavoro di 4 milioni e 500 mila italiani. Di cui più del 70% uomini. Ma questo è un discorso che meriterebbe un altro approfondimento ancora. Manteniamoci sulla diffusione, alta, del contagio nelle regioni del Nord.

Ma com’è possibile che una sanità avanzata come quella della Lombardia non abbia saputo far fronte al disastro? E com’è possibile che nonostante la stretta, in quelle regioni, il contagio sia stato sempre tendenzialmente più alto che altrove? Tipo le regioni del Sud, dove la valanga di contagi e di morti successive di quelle dimensioni non è arrivata. Tanto che – in queste settimane – timidamente solo nei talk show serali, qualcuno si è affannato a domandare perché non “riaprissero” prima le regioni a sud della Campania e dopo quelle più a nord di Roma…
No. Non si può fare. Anche con un generale silenzio, intimidito forse, dei governatori meridionali. Tranne l’ultima impennata di Jole Santelli che in Calabria però non è stata seguita nella fuga in avanti nemmeno dai suoi corregionali.

No, non è accaduto che il Sud sopravanzasse nel riavvio delle attività produttive il Nord. Anzi per capirsi sulla scena sono finiti i soliti Attilio Fontana e Giulio Gallera, governatore e assessore alla Welfare della Regione Lombardia che hanno continuato a sostenere, imperterriti, che al Pirellone non ha sbagliato nessuno. Ma proprio nessuno, eh!
Una spiegazione alla prima domanda – perché in regioni come la Lombardia i dati del contagio restano alti? – potrebbe essere colta dai dati che corredano alcuni articoli sulla benedetta ripartenza.

Ebbene in quelle regioni – oltre Lombardia, anche Veneto ed Emilia Romagna – durante il lockdown sono arrivate alle prefetture 192.443 richieste da parte di altrettante aziende per mantenere aperti i siti produttivi perché considerati funzionali alla filiera delle attività essenziali. Con le procedure snellite per l’emergenza, quindi, hanno potuto rimanere aperti. E se i numeri hanno un senso, bisogna sottolineare che il 55,8% di queste aziende rimaste aperte, nonostante il lockdown, si trovano fra Lombardia (23%), Veneto ed Emilia Romagna (16,4%). Le verifiche delle Prefetture, che riportano i dati dei controlli effettuati fino al 24 aprile, sono state svolte per 116.237 aziende e in 2.631 casi (il 2,3% del totale) si è proceduto alla sospensione delle attività. Che evidentemente non erano funzionali alla filiera delle attività essenziali.

Quindi 190mila azienda non hanno mai smesso di lavorare. Sul volume di dipendenti coinvolti non c’è certezza. Ma siccome è dubitabile che ogni azienda abbia un solo dipendente, beh allora si tratta di un discreto fiume di persone che ha continuato a prendere i mezzi pubblici, ha partecipato alle catene di montaggio, è tornato a casa dalla famiglia che ora viene considerato il focolaio potenziale più a rischio, ha portato in giro – insomma – panza, presenza e forse anche virus.

Così il dubbio iniziale potrebbe avere almeno un indizio di risposta: non sarà che nella civilissima Lombardia (ma anche in Veneto, dove però ha funzionato e bene la medicina territoriale, e in Emilia Romagna) non siano stati in grado di garantire le necessarie, sufficienti e valide misure di sicurezza sul lavoro? Non sarà che nella civilissima e produttivissima Lombardia, dove non hanno sbagliato nulla ma proprio nulla, le fabbriche aperte perché funzionali alle attività essenziali abbiano contribuito a mantenere alto il livello di diffusione del contagio invece che contenerlo?
Ci sarà, prima o poi, un infettivologo, virologo, epidemiologo, magari non proveniente da quelle regioni e forse meno telestar di quanto non siano adesso, che potrà alla fine di questa orrenda fiera, spiegarci cosa è accaduto e perché?
E stavolta, please, senza sbagliare.