Il tema della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, sollevato dal pm siracusano Gaetano Bono, autore del libro Meglio separate, presentato nei giorni scorsi al palazzo di giustizia di Siracusa ed organizzato dalla Camera penale di Siracusa, ha tra i suoi oppositori il Consigliere della Corte di Appello di Catania, Michele Consiglio.

In generale, che opinione ha?

Non ha senso discutere di separazione delle carriere in senso puramente astratto, magari con riferimenti comparativistici ad esperienze straniere perché, se vogliamo essere seri e, soprattutto, concreti, ci tocca discutere della separazione delle carriere qui ed ora, in Italia, in questo paese.

Esaminiamolo nel qui ed ora…

Nel qui e ora l’elaborato testo di Gaetano Bono, certamente pregevole dal punto di vista dell’analisi, risulta, a mio modo di vedere, un’esercitazione teorica. Dico questo perché l’autore ipotizza un assetto nel quale le carriere separate si incastonano in un contesto di principi che mai e poi mai, ripeto mai e poi mai, nel qui e ora, potrebbero trovare spazio espressivo.

Può essere più chiaro?

Ritenere tutto ciò possibile equivale a teorizzare una politica disposta a convivere con un potere inquirente totalmente  impermeabile ad ogni possibilità di controllo esterno ed un PM talmente libero da potere prescindere dalle direttive e dalle indicazioni del suo stesso capo. In altri termini la politica dovrebbe essere improvvisamente illuminata dall’idea che il controllo di legalità, anche sul suo stesso agire, sia una delle finalità più importanti da perseguire. A me, oggi, non pare possibile. Non è questo il tempo ed il livello del pubblico dibattito ne è chiara conferma.

Supponiamo che questa separazione avvenga. Cosa accadrebbe?

Può accadere solo ciò che è coerente al qui e ora politico istituzionale e cioè una mera separazione delle carriere congegnata in modo da allontanare il P.M. dal giudice, sulla base dell’assunto, tanto illusorio quanto fallace, che ciò comporterà maggiore terzietà dello stesso giudice.

Se l’idea di base è che la vicinanza fisica e la “colleganza” pregiudica la terzietà del giudice quale è la ragione per cui io giudice di Appello non dovrei essere condizionato dalla sentenza scritta da un giudice di primo grado con il quale magari ho lavorato per anni e che stimo professionalmente? Eppure nessuno parla di separare le carriere tra giudici di appello e giudici di primo grado o tra gip e giudici di tribunale o tra giudici di appello e consiglieri di cassazione. Perchè non se ne parla?

Già, perché non se ne parla?

Perché la questione di fondo vera, cioè la benzina che alimenta il pensiero di molti teorici della separazione delle carriere, non è la terzietà del giudice. Dietro questa aspirazione si cela a mio avviso quella che è la ragione vera che spinge alla separazione delle carriere che è il   ridimensionamento dei poteri e delle prerogative dell’accusa pubblica.

Sembra la solita difesa d’ufficio…

Attenzione non c’è nulla di scandaloso in questo. E’ del tutto legittimo pensare che un sistema accusatorio possa essere più “giusto” se la dialettica avviene tra parti che sono poste in condizioni di assoluta parità di fronte all’arbitro. Però bisogna avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome: vogliamo separare le carriere non in vista di un maggiore terzietà del giudicante ma di un diverso equilibrio tra le parti. Esaminiamo dunque il grado di “squilibrio” attuale per valutare se ha un senso e se eventualmente un diverso assetto possa ridurlo.

Sarò brutalmente esemplificativo. Attualmente il p.m. dispone della PG, dispone cioè di uomini mezzi e strumenti di cui la difesa non dispone. Vero (squilibrio di forze a favore del pm). Lo stesso pm è, tuttavia, oggi onerato della ricerca della verità e non della condanna dell’indagato. La difesa non è onerata della ricerca della verità e deve muoversi solo in vista del proscioglimento del suo assistito (squilibrio nelle finalità a favore della difesa).

Il P.M. deve provare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio; la difesa ha successo se riesce ad ingenerare nel giudice un ragionevole dubbio (squilibrio nella strategia a favore della difesa). Ecco questo è l’assetto attuale. La forza “militare” del p.m. è controbilanciata da elementi significativi in termini di finalità e strategia che agevolano l’esercizio delle facoltà difensive. Guardate bene il pm deve costruire, la difesa, fondamentalmente, deve distruggere. Il p.m. deve compiere una faticosa opera antientropica, cioè contraria alla natura caotica delle cose; deve mettere ordine in un sistema disordinato e presentare al giudice una costruzione perfetta o quasi. La difesa si muove, invece, con il favore dell’entropia, cioè con il favore della naturale tendenza al caos dei fenomeni, limitandosi a disordinare, a squadernare, a revocare in dubbio la costruzione teorica del P.M.

Trova che sia giusto?

Ha un senso. Lo ha perché il legislatore non ha voluto un sistema accusatorio puro. Lo ha perché riteniamo cosa giusta non l’individuazione e la punizione di un colpevole ma del colpevole. Il pm oggi, può raccontare a sé stesso, in caso di assoluzione (richiesta da lui stesso o decisa dal giudice) di avere comunque contribuito a fare giustizia perché il risultato che conta davvero, quello davvero giusto, non è, ripeto, trovare un colpevole ma il colpevole. Dunque l’assoluzione dell’innocente fa giustizia non meno di quanto lo faccia la condanna del colpevole. Così il p.m. la sera torna a casa e dorme relativamente sereno.

In questo contesto, cosa accadrebbe con la separazione delle carriere?

Cosa accade introducendo solo la separazione delle carriere pura e semplice? Intendo concorso separato, formazione separata e CSM separati, cosa accade in termini di riequilibrio tra le forze dialettiche in campo? Nulla. Non accade nulla. Nell’immediato e nel breve periodo non accade nulla di significativamente rilevante.

Un giudice incline a pensare che il p.m. è portatore di maggiore verità in quanto organo dello Stato continuerà a pensare che è così. Un giudice portato a pensare che l’Avvocato è meno credibile perché persegue solo interessi di parte continuerà a pensare che è così. Un giudice di fronte ad un ragionevole dubbio dovrà assolvere, come succede oggi, e condannerà in presenza di una costruzione teorica ben fatta e ben dimostrata.

E quindi?

Già, perché vi è una tale resistenza nel mondo giudiziario ad accettare anche solo l’idea di un P.M. carrieristicamente separato? Perché se nel breve periodo in termini di terzietà del giudice ed in termini di riequilibrio di forze in campo nulla muta, nel medio lungo periodo, relegando i p.m. in un mondo di soli p.m. e creando una sorta di monocolore genetico, organizzativo, formativo, culturale ed ordinamentale, ciò che si rischia è di trasformare i pubblici ministeri in attori istituzionali straordinariamente autoreferenziali, direi mostruosamente autoreferenziali.

Si spieghi meglio…

Ora immaginate una casta chiusa, totalmente impermeabile al condizionamento esterno, priva di ogni contatto culturale con la magistratura giudicante e strapotente perché assistita dalle forze di polizia. Immaginate questa casta in uno Stato i cui poteri, lo abbiamo visto, fanno a gara a spostare continuamente i limiti dei propri confini.

Immaginate di essere parte di questo mondo e di competere all’esterno con i vostri contraddittori naturali ed all’interno con i vostri stessi colleghi, per l’assegnazione di una indagine particolarmente delicata, per un incarico di coordinamento o di direzione, per una sede ambita. Immaginate quanto possa essere elevata la pressione psicologica all’interno di un contesto siffatto e quante le spinte e le sollecitazioni ad emergere. Quanto può resistere nella psiche di un p.m. l’idea che ciò che gli si confà a livello ordinamentale è la ricerca della verità?

Quanto potrà resistere nella sua testa l’idea che egli non vince e non perde se ottiene un’assoluzione quando un suo collega viene celebrato dai media ed esaltato dal capo per essere riuscito a portare a casa una condanna?

Quanto dovrà essere maturo, colto e consapevole questo p.m. per non farsi trascinare nell’agonismo giudiziario? Agonismo giudiziario significa trasformarsi in una “parte parziale”, significa pensare che le norme dicono che devo cercare la verità ma vabbè, parliamoci chiaro, faccio carriera e conto qualcosa se vinco la causa.

Insomma, il pericolo di una giustizia ingiusta è concreto?

Ciò che accadrebbe dunque, nel medio/lungo periodo sarebbe un mutamento della filosofia di fondo che anima l’agire dell’organo inquirente che sarebbe spinto ad esaltarsi nell’agone dialettico e a misurare il proprio valore nella capacità di prevalere in questo agone, con buona pace di verità e giustizia. La domanda che segue è: per quanto tempo il sistema potrebbe tollerare un p.m. che si è incamminato lungo questa china? Non per molto.

Ma questa indipendenza dei magistrati che valore ha?

Molti discettano di indipendenza esterna dei magistrati, dal potere politico, esecutivo, economico ecc.; pochi parlano di indipendenza interna dei magistrati, dai loro capi e dagli organismi interni di controllo; pochissimi parlano dell’indipendenza non interna ma interiore dei giudici che è quella meno afferrabile e meno conosciuta, cioè l’indipendenza dall’idea che si ha di sé stessi e della categoria alla quale si appartiene.

Ebbene a proposito di indipendenza interiore, credetemi, nel contesto di una giustizia costruita in termini agonistici, i cui attori si pensano dei competitor chiamati alla gara dialettica, pochissimi sarebbero talmente interiormente indipendenti dal respingere l’idea di essere i numeri uno al mondo o di volerlo diventare. E in questa sorta di tesa ed esaltante partita di tennis sapete cari Avvocati quale sarebbe il ruolo assegnato al vostro assistito? … Quello della “pallina”.