C’è uno strano fenomeno in giro per l’Italia. Dal “Papete” alle recentissime consultazioni quirinalizie a Cinquestelle, chiunque assuma (o sia in procinto di farlo) la responsabilità di governare sia il Paese, sia le sue articolazioni territoriali, cade nella tentazione di voler le “mani libere”. O, se preferite, i “pieni poteri”. Di solito, con questi atteggiamenti si mette paura alla gente e si compromette la propria carriera politica. Agli italiani, l’eco di questo solipsismo mette ancora paura.

Chiedetelo ai due Mattei, Renzi e Salvini in ordine alfabetico, l’effetto che fa, dal referendum di due anni fa, alla crisi agostana dell’altro ieri. Ma forse c’è di più. Questo istinto politico primordiale non è dovuto soltanto alla volontà di fare e disfare a proprio piacimento. E’ una palingenesi al “Singolare” – che ognuno di noi può leggere come la tentazione dei leader politici di vestire i panni del sovrano, del monarca, del conducator o dell’ uomo solo al comando – vero e proprio tratto distintivo del nostro Paese, sin dai tempi della liquefazione della tanto bistrattata Prima Repubblica. Al grido di “ce’ penso io a tutti, perché so’ er meglio”, abbiamo visto almeno due generazioni politiche cimentarsi sullo sdrucciolevole terreno della “sovranità”. Proviamo a fare un elenco ragionato che vada oltre il perimetro del quotidiano. Esempi concreti della sovranità messa in discussione sono l’eliminazione delle elezioni dirette delle Province, le eliminazioni di alcune amministrazioni comunali attraverso la prassi dello scioglimento di quegli stessi organismi rappresentativi. Possiamo continuare con le proposte di abolizione delle funzioni legislative del Senato e la costante richiesta di riduzione del numero dei rappresentanti del popolo, a qualsiasi livello politico, dalla Camera al Senato passando per i parlamenti regionali e le assemblee comunali.

Per imporre un modello di pensiero unico, le giustificazioni non mancano. Ne esistono di immateriali, come quelle che vanno dal “lo chiede l’Europa”, alla definizione di “casta”, concetto che ha macchiato irrimediabilmente la nostra classe dirigente in politica. Ancor più stringenti sono le giustificazioni “materiali” – spesso di cartapesta – che portano alla riduzione degli spazi di rappresentazione politica: molto gettonati negli anni sono stati la “razionalizzazione” dei tempi e dei costi della politica, seguiti a ruota dalla necessità di risparmiare soldi pubblici o alle recentissime emergenze in tema di sicurezza nazionale (chiudo i porti, non sbarca nessuno).

Non so se esista una matrice univoca a causare tutto questo. Ma è bene che i cittadini, ricordino ed abbiano bene impressi i principi fondamentali su cui si fonda la Repubblica Italiana. Gli articoli 1 e 12 spiegano quali sono le basi principali della Costituzione, il fulcro dei fondamenti del nostro Stato e della nostra convivenza. Questi articoli non possono essere modificati, neppure con una revisione della Costituzione. I principi fondamentali sono Democraticità (art. 1, 1° comma), Sovranità popolare (art. 1, 2° comma), Inviolabilità dei diritti (art. 2), Uguaglianza formale ed uguaglianza sostanziale (art. 3), Diritto al lavoro (art. 4), Riconoscimento delle autonomie locali (art. 5), Tutela delle minoranze linguistiche (art. 6), Libertà religiosa (art. 8), Sviluppo della cultura, della tutela ambientale e del patrimonio storico ed artistico (art. 9), Riconoscimento di collaborazioni internazionali (art. 10), Ripudio della guerra come strumento di offesa (art. 11), Struttura della bandiera italiana (art. 12).

L’Italia, oltre ad essere considerata una Repubblica di ‘evasori’ è, soprattutto una Repubblica di ‘elusori’. Su certi temi, ‘eludere’ è consentito, entro certi limiti, sui principi fondamentali non bisogna neppure pensarci. Neanche se ce lo chiede l’Europa.

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