L’avvocato Giorgio Bisagna è a Palermo certamente l’avvocato più noto ella difesa dei diritti dei migranti. Lo abbiamo incontrato per parlare del decreto sicurezza bis. Una intervista realizzata in piena crisi di governo poco prima che nascesse il governo Conte bis e si concretizzasse l’alleanza giallo rossa ma che pubblichiamo solo oggi all’indomani del primo consiglio dei ministri che fra i suoi atti di insediamento a impugnato una legge del friuli ritenuta discriminatoria nei confronti dei migranti. un cambio di direzione che rende molto attuali le posizioni giuridiche che Bisagna offre al confronto sul tema migranti e sicurezza. Ad oggi, infatti, i Decreto Sicurezza bis è in vigore

“Questo interesse iniziò quasi per caso e quando il fenomeno doveva ancora prendere le dimensioni che ha oggi”, precisa subito. L’ultimo caso che lo ha portato agli onori della cronaca è quello di Paul Yaw migrante ghanese di 51 anni ospite della Missione di Speranza e di Carità che dopo il suo intervento, oltre a quello ben più clamoroso di Biagio Conte, ha ottenuto dal Tar di Palermo la sospensione del provvedimento del questore che nei giorni scorsi aveva rigettato la sua richiesta di permesso di soggiorno. Con lui vogliamo capire le conseguenze che il Decreto Sicurezza, cioè il Decreto legge n. 113 del 4 ottobre 2018, da tutti chiamato Decreto Salvini.

Ci dice le novità più importanti del Decreto e le conseguenze che ha sugli immigrati?
Bisogna prima di ogni cosa comprenderne la ratio giuridica di questo provvedimento, perché cioè si è giunti a questo tipo di scelte piuttosto che ad altre. Una normativa organica del Diritto di asilo in Italia, fino al 1989 non esisteva. Infatti, benché la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, fosse stata ratificata dal Governo italiano, già nel 1954, l’Italia l’applicava nei fatti soltanto agli esuli provenienti dal blocco sovietico. Il passo successivo si ebbe nel 1989.

Perché?
Perché fu la legge del 1990, la c.d. Legge Martelli a prevederne una applicazione più ampia, cioè anche a coloro che provenivano da altre zone del mondo. Rimane ancora la legge che affronta in modo ampio il problema migratorio, in termini scientifici e garantisti. Seguirono poi la legge del 1998, c. d. Turco-Napolitano e quella del luglio 2002, la c.d. Bossi- Fini.

La novità fu l’introduzione della detenzione amministrativa?
Va subito detto che l’introduzione della Detenzione amministrativa attraverso lo strumento dei Centri di permanenza temporanea è frutto della Turco-Napolitano che li ha inserirli per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico. La Bossi-Fini non ha fatto altro che inasprire provvedimenti restrittivi previsti già nella Turco-Napolitano.

Perché questo istituto di Detenzione amministrativa è così importante?
Perché attraverso esso un cittadino straniero può essere privato della libertà personale non perché pericoloso, non perché sospettato di aver commesso un reato, ma semplicemente perché non è in regola con degli obblighi di natura amministrativa. Questa privazione avviene senza alcuna valutazione della sua pericolosità sociale, ma solo perché si pensa che non possa rimanere in Italia e dunque debba essere rimpatriato. Anche la nostra Corte Costituzionale, interpellata in merito, la ritenne conforme perché comunque era previsto un controllo dell’Autorità giudiziaria.

E la Bossi-Fini perché è importante?
Per altri aspetti, quelli legati alla necessità di regolamentare l’ingresso in Italia di tanti che agli inizi del 2000 trovavano da noi una opportunità di lavoro e perché, comunque, come ho detto, ha “esaltato” gli aspetti sanzionatori e securitari, che comunque, erano già presenti nella Turco Napolitano. Ma questo poco ha da vedere con Decreto di ottobre scorso.

E allora, torniamo alla istituzione dei Centri di permanenza.
La Bossi-Fini e una serie di norme successive portano i termini iniziali, di trattenimento in questi Centri fino a un massimo di trenta giorni, ad oltre un anno e mezzo, anche perché nel frattempo il fenomeno esplose e il numero dei casi da esaminare aumentò di molto. Dopo vari cambiamenti di titolazione oggi si chiamano “Centri di permanenza per il rimpatrio”.

Cosa sono e a che servono?
Al di là dei nomi sono a tutti gli effetti luoghi di privazione della libertà personale, anche se il luogo di detenzione non è un carcere italiano. La privazione della libertà è pressoché assoluta, (oggi non è permesso per motivi di sicurezza nemmeno l’uso del cellulare). Per comunicare con le famiglie di origine queste persone devono utilizzare i telefoni fissi, esattamente come i detenuti delle nostre carceri. A mio personale avviso è anche peggiore del carcere perché le regole carcerarie sono previste in modo tassativo e note a tutti i carcerati; diversamente nei CPR ci sono poche norme e tutto è lasciato alla discrezionalità di chi li gestisce, con le conseguenze immaginabili che conosco bene, perché chiamato spesso a difendere i diritti di queste persone.

Veniamo allora al Decreto sicurezza di ottobre? Cosa prevede?
Bisogna prima fare un’altra premessa che riguarda il contesto e le origini di tutte le norme, e di queste in modo particolare. Fino all’anno scorso possiamo dire che c’è sempre stato un filo di continuità sulle norme per l’immigrazione perché chi le scriveva proveniva anche da contesti socio-assistenziali dei Ministeri che si sono via via succeduti. Con questo Decreto si cambia musica. Il contesto di provenienza è il Ministero degli Interni e in particolare il dipartimento di Pubblica sicurezza, dove l’immigrazione è inteso da sempre come un problema di pubblica sicurezza, appunto. Quindi l’immigrato è percepito come uno che attenta alla sicurezza dello Stato, senza che necessariamente debba delinquere, per il solo fatto che viene in Italia, per esempio a togliere il lavoro agli italiani.

Torniamo al Diritto d’Asilo.
Sul tema del Diritto di Asilo si è proceduto dal punto di vista giuridico ancora più lentamente perché sono del 2004 2005 i primi decreti attuativi delle Direttive europee sul Diritto di Asilo. Nello specifico erano due: la direttiva qualifica e la direttiva procedure. Servivano per individuare prima le vari qualifiche per ottenere lo stato di rifugiato e poi le conseguenti procedure da attuare. In tal modo si individuava chi aveva diritto dal punto di vista soggettivo e quali erano in conseguenza le procedure necessarie da mettere in campo.

E le conseguenze?
La tutela che ne derivava, la protezione che spettava fino a prime dell’entrata in vigore del Decreto Sicurezza dell’ottobre 2018 era triplice. La prima e la più importante era ed è ancora la Protezione internazionale. La Convenzione di Ginevra prevede che, il termine di “rifugiato” è applicabile […] a chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato. (Art. 1 Definizione del termine di “rifugiato”, Convenzione di Ginevra, 1951).

E le altre?
Le altre riguardano la protezione sussidiari che riguarda anche il caso in cui il pericolo per la persona è non è individualizzato, ma è generico cioè non ci sono pericoli obiettivi a suo carico, ma motivi oggettivi che possono arrecare danno se la persona torna nel paese da cui proviene. Poi in Italia è stata prevista anche la possibilità di concedere la “Protezione umanitaria”, e qui sono nati tutti i problemi che il Decreto in oggetto tenta di risolvere.

Perché?
Perché le Commissioni territoriali previste per il riconoscimento dello Stato di rifugiato possono cioè ritenere esistenti motivi di carattere umanitario come previsto all’art. 5 comma 5 del testo unico immigrazione.
Va precisato che il concetto di protezione umanitaria è abbastanza ampio e tiene conto di vari elementi. Nella mia esperienza di avvocato ho potuto registrare una pluralità di decisioni talvolta diverse da parte di Commissioni diverse: insomma, una notevole discrezionalità. Nel corso degli anni si sono determinati motivi di fuga dai propri paesi dettati da una pluralità di emergenze, non tutti riconducibili a quelli previsti dalla Convenzione di Ginevra. Si pensi a quelle ambientali, alle carestie, alla deforestazione, ai cataclismi naturali.

E le conseguenze?
La tutela umanitaria, che, prima dell’ottobre 2018 poteva essere accordata, andava a colmare il vuoto normativo esistente tra i rifugiati ai sensi della convenzione di Ginevra, e coloro i quali, pur non essendo tali, meritavano comunque, per i motivi che ho detto, e per altri, comunque una protezione.
Per essere più chiari: su un gommone che attraversa il Mediterraneo possono essere imbarcate molte persone che vengono da situazioni molto diverse; ma questo, al di là del problema del soccorso in mare, non vuol dire che a terra bisogna dare a tutti la stessa tipologia di tutela.

E il Decreto sicurezza che scelte ha compiuto?
Il Decreto sicurezza, affrontando questa grande opzionalità che era già presente, ha deciso di eliminare alla radice la protezione umanitaria. Bisogna comunque evidenziare che l’allargamento delle maglie negli anni aveva consentito attraverso il riconoscimento della protezione umanitaria, attraverso le Commissioni o per via giudiziaria, l’ingresso e il permanere in Italia di persone che poi si sono integrate producendo reddito e arricchendo nel suo complesso tutta la società italiana.

Cosa è cambiato dal 18 ottobre 2018?
È stato tolto da tutto il corpo normativo la parola “umanitaria”. Chi ha tempo si veda il testo del Decreto e noterà che è pieno di norme di rinvio perché l’intendimento quasi perfettamente riuscito è stato quello di togliere ogni appiglio giuridico, ogni riferimento normativo ad una possibile forma di protezione che sia di natura umanitaria. I tecnici del Ministero hanno fatto un lavoro certosino per cancellare questa parola. È scomparsa l’idea che nel diritto dell’immigrazione potesse esserci alcun riferimento alla parola “umanitaria”. La conclusione è che adesso non esiste più una disciplina volta a coprire quei casi che prima erano tutelati dalla tutela umanitaria. L’accoglienza, ora, al di fuori dei casi tipici previsti dalla Convenzione di Ginevra, può essere concesso solo per particolari casi che possano essere ricompresi nella eccezionalità dell’evento. Esempio gli atti di eroismo o le malattie particolarmente gravi.

Quindi quelli che si trovano nel nostro Paese cosa possono fare?
Quelli che sono giunti e quindi hanno fatto domanda di asilo prima del 18 ottobre sono col vecchio regime, per cui il Tribunale dà la protezione umanitaria se ci sono i presupposti. Le Commissioni, invece, tenuto conto del cambiamento del clima culturale avvenuto, tendono ad una applicazione retroattiva anche per quelli giunti in Italia prima del 18 ottobre.

E per gli altri?
Per i richiedenti asilo dopo il 18 ottobre viene introdotta una norma che non consente l’iscrizione anagrafica al Comune. La residenza anagrafica aiuta tra l’altro a determinare con certezza il computo degli anni per avere il riconoscimento della cittadinanza. Per un immigrato è 10 anni, per un rifugiato è 5 anni. Questa problematica riguarda non solo quelli che sono sbarcati ieri o l’altro ieri, ma anche quelli che sono qui da molti anni. Sono in attesa del riconoscimento, non gli viene dato, fanno ricorso ma un bel giorno la loro vicenda deve concludersi.

Come si può descrivere la situazione ad oggi?
Dal mio punto di vista la situazione oggi è piena di rigetti di domanda di asilo, di soggetti che non avranno diritto ad essere accolti per esigenze umanitarie e fanno ricorso ai Tribunali, che, invece, applicando correttamente le norme, concedono le tutele che le Commissioni negano.

Stiamo parlando dei clandestini, dunque?
Nel linguaggio quotidiano vengono definiti clandestini, ma va detto che nel nostro ordinamento non è prevista la figura del clandestino. L’art 13 della legge Turco Napolitano, dice che “Per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, il Ministro dell’interno può disporre l’espulsione dello straniero anche non residente nel territorio dello Stato … quando lo straniero: a) è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera … ; b) si è trattenuto nel territorio dello Stato senza aver richiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, …

Allora perché li chiamiamo clandestini?
Clandestino è un giudizio morale. Ma per chi è irregolare, quindi, “clandestino” non ci sono sanzioni penali di natura detentiva. Tanto ci sono i cpr, di cui ho già parlato…

E quelli che erano negli SPRAR?
Sono stati smantellati gli SPRAR che avevano la funzione di dare assistenza, non solo a chi già è rifugiato, ma anche a chi attendeva la decisione. Questi centri che funzionavano anche con Fondi europei, e, obiettivamente, hanno funzionato bene, per la mia esperianza, ora sono chiusi, quantomeno ai richiedenti asilo. Quindi è stata tolta l’assistenza a queste persone anche se tra queste possono esserci coloro che hanno diritto a rimanere in Italia.
Queste persone non sono state messe fuori perché irregolari, ma perché lo Stato ha deciso di non assisterli più con gli SPRAR.

Quale sarà il loro futuro?
Molto incerto, perché molti, almeno quelli che desiderano rimanere tra noi, attraverso i tre gradi di ricorso, sperano di ottenerlo alla fine. Ma tutti sanno ormai che le possibilità si sono ridotte di molto, per coloro che non provengono da zone di guerra. Vivono con poche tutele, quelle private della solidarietà, e con poche speranze. Il rischio di finire nelle maglie della criminalità organizzata da questo punto di vista aumenta. Non possono sperare in un lavoro, né in uno legale, perché non hanno il permesso di soggiorno, né in uno illegale, perché il datore di lavoro commetterebbe un reato e oggi le probabilità di essere scoperti sono aumentate.

Ultima domanda. E del nuovo Decreto sicurezza cosa può dirci?
Che è un ulteriore vulnus, all’Umanità del Diritto.
La Storia ci giudicherà.
Tutti.

Quanto ai dati ed alle statistiche rese note, sui flussi migratori, non posso che confermare quanto detto.
Le politiche securitarie, il pugno duro, non funzionano. Gli sbarchi sono diminuiti, ma non le morti in mare, che restano spesso senza registazione. Negare, proibire, come previsto dal decreto sicurezza bis, lo sbarco dei naufraghi, raccolti dalle navi civili e militari, significa violare, oltrechè principi basilari di umanità , iscritti nel DNA di chi va per mare, la normativa internazionale sul Soccorso e Salvataggio in mare. Si fa confusione infatti, tra l’obbligo di soccorso e l’obbligo di accoglienza. Il primo non può mai essere messo in discussione. Mai.
Il Decreto Sicurezza Bis lo fa.
E, ripeto, la Storia, ci chiederà il conto.

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