Antonio Ligabue, pittore straordinario e controverso, è raccontato, magistralmente, dal giornalista del Corriere della Sera, Carlo Vulpio, ne “Il genio infelice” (Ed. Chiarelettere, 2019), il “Romanzo della vita di Antonio Ligabue” che sarà presentato venerdì 8 novembre alle ore 18 nell’Oratorio di Sant’Elena e Costantino a Palermo.

L’autore dialogherà con la giornalista e storica dell’arte, Silvia Mazza. La Fondazione Federico II prosegue così il ciclo di incontri e approfondimenti avviato lo scorso giugno sul tema della mostra, attualmente in corso, Castrum Superius, il Palazzo dei Re Normanni.

Con la presentazione de Il genio infelice, questa volta, il presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè e il direttore generale della Fondazione Federico II, Patrizia Monterosso affrontano il tema della follia, dell’indifferenza e dell’esclusione degli ultimi.

Un fil rouge con Acqua Passata¿ (l’opera allestita a Piazza del Parlamento in memoria dei migranti morti nel Mediterraneo). Due facce della stessa medaglia che hanno in comune l’indifferenza e l’apatia. Un invito ad una necessaria riflessione sul tema del rapporto della comunità con chi è diverso.

Il libro racconta l’esistenza tormentata di uno dei più grandi artisti del Novecento italiano, e allo stesso tempo un uomo profondamente segnato nel fisico e nella mente da un’infanzia di stenti, sporco e selvatico, trascinato da un carattere irascibile e violento e dai suoi atti di autolesionismo; sempre in bilico tra gli internamenti all’Istituto Psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia e al Ricovero di mendicità di Gualtieri.

“L’invito alla lettura, proposto dalla Fondazione Federico II, – dice Gianfranco Miccichè, Presidente dell’Ars e della Fondazione Federico II – rappresenta l’opportunità di recuperare questa volta il valore di un grande artista, colui che viene dipinto come il Van Gogh italiano. Riappropriarsi di quella grandezza, attraverso la lettura di un grande giornalista, diviene un’occasione di riflessione”.

La vicenda umana di Ligabue è più che attuale. Un uomo dichiarato folle testimone del secolo della follia delle guerre, dei lager, e dell’emigrazione. Un artista, un uomo che si muoveva con caparbietà in direzione contraria alla catastrofe del Novecento.

“Il romanzo aiuta il lettore a rivedere la visione, talvolta frettolosa e sterile, verso chi è diverso. L’autore introduce un’ulteriore riflessione – spiega Patrizia Monterosso, direttore generale della Fondazione Federico II – per andare oltre la finta compostezza di un conformismo che omologa tutto persino la creatività e l’espressione artistica sotto un unico schema mentale che diviene cliché per l’umanità. E per questa ragione a buon titolo il romanzo diviene un inno alla creatività, alla bellezza”.

Se c’è un artista italiano che nel Novecento ha seguito una direzione ostinata e contraria, è proprio Antonio Ligabue (1899-1965). Nato a Zurigo da una ragazza madre di Belluno, figlio di tre padri e da ciascuno di essi abbandonato, fragile ma orgogliosamente solitario, autodidatta, geniale e visionario, Toni al mat – il matto, così veniva chiamato nella Bassa padana – è lo straordinario testimone di un secolo di distruzione e follia. Lui rappresenta ciò che vede, e vede ciò che sogna. Amplifica la realtà, immortalandola.

La sua vita e le sue opere denunciano il folle ritiro dell’uomo dalla natura, che diventa un’estranea su cui esercitare il proprio dominio. Ligabue si ribella ai comandamenti di ordine e disciplina, mal tollera ogni conformismo, non per scelta ma assecondando un istinto primordiale che lo porta a trovare pace e meraviglia solo di fronte agli animali, reali o immaginari, anche trasfigurandoli, per rappresentare la ferocia degli uomini e la vita come un’eterna lotta di prevaricazione, non di sopravvivenza.

In un periodo come quello che stiamo vivendo, che soffoca la fantasia e obbliga le persone a stili di vita e schemi mentali non scelti, o almeno non voluti. Quella di Antonio Ligabue è un’arte che nasce dall’impossibilità: di vivere un’infanzia felice, l’impossibilità di comunicare, l’impossibilità di amare. È la storia di un uomo considerato folle, uno di quelli che vivono ai margini, uno dei tanti destinati all’oblio.

“Se c’è un posto in Italia dove il romanzo della vita di Ligabue deve essere presentato è la Fondazione Federico II – spiega Silvia Mazza, storica dell’arte -. Dove altrimenti raccontare con altrettanta credibilità una straordinaria vicenda in cui l’arte, nella sua declinazione più primigenia e istintuale, si intreccia con temi come il dramma dell’emigrazione e dell’esclusione, nella comune cifra della follia? Dove, se non con chi ha inaugurato una stagione di reale democrazia della fruizione, mediante un progetto culturale meditato che ha ridato il Palazzo alla città e al mondo? Dall’apertura di spazi fino a poco tempo fa preclusi ai visitatori, come la Sala di Ruggero II o i Giardini Reali, a eventi come la mostra Castrum superius, in cui la reggia dei re normanni è tornata a essere simbolo di convivenza tra i popoli, o l’installazione su Piazza del Parlamento a memoria delle vittime nel Mediterraneo. Il romanzo di Vulpio – conclude Mazza – è un potente antidoto contro il tentativo di annichilimento del pensiero e delle esistenze che si rinnova funesto nella storia, capace di parlare all’umanità attraverso tutte le epoche, come solo i grandi classici sanno fare”.

Una storia che sembra già scritta ma che, imprevedibilmente, regala un finale inaspettato: una grande mostra a Roma e la consacrazione di critica e pubblico. In un periodo come quello che stiamo vivendo, che soffoca la fantasia e obbliga le persone a stili di vita e schemi mentali non scelti, o almeno non voluti, il romanzo di Vulpio racconta una storia tormentata ed esemplare. Un inno alla libertà e alla vita.

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