Finalmente si potrà ridare dignità agli oltre 8 milioni di quintali di grano duro prodotto nell’Isola. E’ il commento di Coldiretti Sicilia sull’entrata in vigore dei due decreti interministeriali sull’indicazione dell’origine obbligatoria del riso e del grano per la pasta in etichetta dopo 180 giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale che cade esattamente il 13 febbraio per il riso e domani, 14 febbraio, per la pasta. Il grano siciliano oggi viene venduto a 18 centesimi al chilo ed è addirittura in calo, una cifra assurda che ha causato in dieci anni la perdita di oltre 15 mila ettari – sostiene Coldiretti Sicilia – nonostante il prodotto dell’isola sia pressoché esente da micotossine, grazie al clima e, e quello regionale si essicca naturalmente grazie al sole connotando inoltre il paesaggio che oggi appare depauperato proprio a causa della svendita del prodotto negli anni.
Così finalmente si potrà sapere se nella pasta che mangiamo e che diamo ai nostri figli c’è grano canadese trattato in preraccolta con il glifosate, proibito sul grano italiano – commenta il presidente Coldiretti Sicilia, Francesco Ferreri – . Conoscere da dove proviene ciò che si mangia è un diritto di ogni consumatore e oggi si può aggiungere un altro tassello alle tante battaglie fatte da Coldiretti per l’economia regionale.
Secondo quanto previsto dal decreto le confezioni di pasta secca prodotte in Italia – spiega la Coldiretti – dovranno d’ora in poi avere obbligatoriamente indicato in etichetta il nome del Paese nel quale il grano viene coltivato e quello di molitura; se proviene o è stato molito in più paesi possono essere utilizzate, a seconda dei casi, le seguenti diciture: paesi UE, paesi NON UE, paesi UE E NON UE. Inoltre, se il grano duro è coltivato almeno per il 50% in un solo Paese, come ad esempio l’Italia, si potrà usare la dicitura: “Italia e altri Paesi UE e/o non UE”. Si tratta del risultato della guerra del grano lanciata da Coldiretti con decine di migliaia di agricoltori scesi in piazza per difendere dal rischio di abbandono della coltivazione piu’ diffusa in Italia realizzata spesso in aree marginali senza reali alternative.
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