Una volta scoperti gli uomini di Vernengo tentarono di avvicinare i finanzieri che stavano indagando sul gruppo di distributori di benzina al centro dell’inchiesta.
Gli uomini dell’organizzazione avevano solo uno scopo cercare di sapere cosa avevano scoperto gli uomini dei baschi verdi e cercare di prendere le contromosse.
Secondo la ricostruzione del giudice Walter Turturici, il gruppo che faceva capo alla storica famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù avrebbe tentato di inquinare le prove, grazie ad una serie di contatti con tre investigatori che però alla fine non hanno portato a nulla.
La banda tentò di avvicinare tre finanzieri. I primi due, uno in pensione, l’altro all’epoca dei fatti distaccato presso la polizia giudiziaria del tribunale, hanno avuto diversi contatti con un personaggio molto vicino ai Vernengo, Natale Di Cristina, a cui già dieci anni fa venne sequestrato un immobile il cui proprietario occulto era il boss ergastolano Pietro Vernengo.
«Da diverse conversazioni telefoniche – scrive il giudice -, emerge con chiarezza l’effettivo tenore dei rapporti di vicinanza e contiguità esistenti tra i due finanzieri da un lato e Di Cristina dall’altro».
Il terzo finanziere che invece si è guardato bene dal farsi avvicinare dal gruppo e anzi dopo il primo contatto ha capito subito l’antifona e 24 ore dopo ha «diligentemente» redatto una relazione di servizio ai suoi superiori per informarli di ciò che stava accadendo.
Proprio lui faceva parte del nucleo di polizia tributaria della finanza che stava conducendo l’inchiesta sui Vernengo.
«A tale riguardo – scrive il giudice – in una prima relazione di servizio del 4 novembre 2013 rendeva nota la circostanza che in data 3 novembre 2013 veniva contattato al fine di organizzare un incontro teso ad ottenere specifiche informazioni circa le conseguenze derivanti dall’elevazione dei predetti verbali di constatazione nei confronti del gestore dell’impianto di distribuzione di carburante».
In 24 ore dunque il tentativo viene subito a conoscenza dei superiori, il sistema di «alert», ovvero di messa in guardia, della guardia di finanza entra in funzione, così come le opportune contromisure. Scattano pedinamenti e intercettazioni ed a quanto pare lo capiscono anche gli altri due militari che non contattano più il loro collega.
Fatte le dovute differenze tra i tre militari, c’è poi l’aspetto centrale della questione. Per il giudice questi tentativi di avere informazioni sui controlli in corso non costituiscono reato, motivo per cui i finanzieri che erano in contatto con Di Cristina non sono indagati.
«Il materiale indiziario raccolto non consente di ipotizzare la sussistenza di un’eventuale forma di responsabilità penale in ordine al coinvolgimento nella vicenda – sottolinea il giudice -, sul piano, ad esempio, di un contributo rilevante in chiave di favoreggiamento personale alle condotte poste in essere dagli altri indagati o persino di partecipazione a titolo concorsuale nella perpetrazione dei delitti del sodalizio criminoso».
Secondo la ricostruzione del giudice dunque questa «disponibilità» non si è mai tradotta in condotte concrete. O meglio, non si è «raggiunta la prova – precisa il giudice -, che ciò poi si sia tradotto, di fatto, in comportamenti di supporto, di sostegno o di agevolazione concretamente apprezzabili sul piano della materiale offensività».
Di contro proprio questi tentativi da parte di Di Cristina e del gruppo che stava alle sue spalle, costituiscono per il giudice Turturici la prova «del grado di gravità del quadro indiziario esistente a carico dei singoli componenti del sodalizio criminale».
«Mi stanno martorizzando» È questa la frase che avrebbe innescato il tentativo di avvicinamento ai finanzieri che indagavano sugli impianti. È pronunciata da Di Critina, lo storico prestanome dei Vernengo, nel corso di una conversazione con il finanziere in pensione.
È l’ottobre del 2013, l’inchiesta è appena iniziata e le fiamme gialle hanno già controllato da cima a fondo (è proprio il caso di dirlo), il distributore di via Roccella, gestito ufficialmente da Alberto Melilli, per l’accusa un altro prestanome dei Vernengo, che non a caso apre la lista dei 43 indagati.
Gli investigatori hanno scoperto sotto l’impianto un meccanismo che tarocca l’erogazione dei carburanti, fornendo così circa l’8 per cento di prodotto in meno agli automobilisti. Ma è solo l’inizio, i finanzieri trovano in quell’impianto decine di documenti dai quali si evince che i Vernengo controllano una rete di distributori grazie a teste di legno.
E così controlli e accertamenti diventano sempre più pressanti, tanto che Di Cristina, il braccio destro dei Vernengo, cerca di avere un contatto con chi indaga. E al telefono dice al finanziere in pensione: «Mi stanno martorizzando la vita…parola d’onore, vuol dire… sono venuti… sono venuti da via Francesco Crispi e mi fecero un altro verbale alle otto e venticinque… una cosa allucinante…quello che sto passando…».
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